R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sig.ri Magistrati:
GUIDO RAIMONDI – Primo Presidente f.f. –
ETTORE CIRILLO – Presidente di Sezione –
LORENZO ORILIA – Consigliere –
LUCIO NAPOLITANO – Consigliere –
ALBERTO GIUSTI – Consigliere –
ROSSANA MANCINO – Consigliere –
FRANCESCO TERRUSI – Rel. Consigliere –
ANTONIO PIETRO LAMORGESE – Consigliere –
ROBERTA CRUCITTI – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 36706-2018 proposto da:
(omissis) (omissis) (omissis) (omissis) rappresentata e difesa dall’avvocato (omissis) (omissis);
– ricorrente –
contro
(omissis) (omissis) oppure (omissis) (omissis) (omissis) PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI BRESCIA;
– intimati –
avverso il decreto del TRIBUNALE di BRESCIA emesso il 19/11/2018 (r.g. (omissis).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/07/2023 dal Consigliere dott. FRANCESCO TERRUSI;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale dott.ssa RITA SANLORENZO, che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo di ricorso.
Fatti di causa
(omissis) (omissis) (omissis) (omissis) ha proposto reclamo contro il decreto col quale il giudice tutelare presso il Tribunale di Brescia, in data 21-9-2018, ha autorizzato il rilascio del passaporto in favore del marito (omissis) (omissis) .
Sulla premessa che dal matrimonio erano nati quattro figli, tre dei quali ancora a quel momento minorenni (omissis) (omissis) (omissis) (omissis), e che era pendente il giudizio di separazione coniugale nel cui ambito ella aveva chiesto l’affidamento in via esclusiva dei figli minori, ha denunziato che il marito, allontanatosi da casa, non aveva più contribuito alle spese di mantenimento dei figli stessi. Ha prospettando il pericolo che egli potesse portare con sé i minori fuori dall’Italia e comunque sottrarsi definitivamente agli obblighi di mantenimento.
Il Tribunale di Brescia, dopo aver precisato che la domanda era da intendere circoscritta alla revoca dell’autorizzazione al rilascio del passaporto per il solo marito (poiché il giudice tutelare non si era pronunciato sul rilascio del passaporto per i figli), ha rigettato il reclamo per mancanza di prove circa l’attuale condizione lavorativa del coniuge e la dedotta sua inadempienza agli obblighi di mantenimento dei figli, o in ogni caso di un più generale disinteresse del medesimo alle esigenze economiche della prole.
Ha quindi ritenuto che “comparando gli interessi giuridici sottesi alle posizioni dei coniugi” il diritto del marito al rilascio del passaporto, espressione della fondamentale libertà di movimento, non potesse considerarsi “recessivo a fronte di mero timore muliebre(1), di per sé insufficiente a motivare un legittimo dissenso”.
Avverso il decreto del tribunale la sig.ra (omissis) (omissis) (omissis) (omissis) ha proposto ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria.
L’intimato non ha svolto difese.
La causa, inizialmente avviata alla trattazione camerale dinanzi alla Sesta sezione civile, è stata rimessa in pubblica udienza dinanzi alla Prima sezione con ordinanza interlocutoria n. 34984 del 2021.
La Prima sezione l’ha rimessa a sua volta al Primo presidente con ordinanza interlocutoria n. 30478 del 2022 per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ravvisando una questione di massima di particolare importanza quanto alla possibilità o meno di assoggettare il provvedimento, in casi simili, al ricorso straordinario per cassazione.
Il Primo presidente ha disposto in conformità.
Ragioni della decisione
I. – I motivi di ricorso sono i seguenti:
(i) violazione e falsa applicazione della legge 1185 del 1967 per avere il tribunale mancato di svolgere un’effettiva comparazione tra il reale interesse dei minori e le effettive esigenze di movimento del padre;
(ii) violazione e falsa applicazione della legge medesima in conseguenza dell’inversione dell’onere probatorio quanto ai presupposti dell’autorizzazione, onere da considerare a carico del genitore tenuto ad adempiere agli obblighi di mantenimento della prole;
(iii) omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere il tribunale fondato la decisione unicamente su talune delle risultanze senza approfondirne altre, così inficiando l’iter motivazionale;
(iv) violazione del principio della domanda e della corrispondenza fra chiesto e pronunciato, giacché solo la domanda principale era stata esaminata, e non anche le subordinate tese alla possibilità di limitare il diniego del passaporto fino alla definizione del giudizio di separazione, a meno di idonee garanzie.
II. – L’ordinanza interlocutoria ha sottoposto la questione di massima di particolare importanza relativa alla natura del provvedimento emesso in sede di rilascio del passaporto, per gli effetti sulla possibilità di impugnativa, ai sensi dell’art. 111 , del decreto assunto a conclusione del reclamo.
Ciò nella concorrenza dei requisiti della “decisorietà” e della “definitività”.
Al riguardo ha rimarcato che l’autorizzazione al rilascio del passaporto nel caso di mancato assenso dell’altro genitore trova la sua disciplina nella legge 21 novembre 1967, n. 1185, art. 3, lett. b, ed è finalizzata a garantire l’assolvimento, da parte del genitore, degli obblighi verso i figli, così come precisato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 464 del 1997. Questa sentenza – è bene rammentare – ha dichiarato l’incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 e 16 cost., del ripetuto art. 3, lett. b), nella parte in cui non esclude la necessità dell’autorizzazione del giudice tutelare al rilascio del passaporto quando il genitore naturale richiedente abbia l’assenso dell’altro genitore con lui convivente ed esercente congiuntamente la potestà genitoriale che dimori nel territorio della Repubblica.
Quanto al provvedimento emesso in sede di reclamo all’esito della procedura avviata ai sensi dell’art. 3 sopra citato – provvedimento da considerare certamente definitivo dal momento che contro lo stesso non sono previsti ulteriori mezzi di impugnazione – la Prima sezione ha rilevato la necessità di un maggiore approfondimento del requisito della decisorietà.
A questo fine ha opinato doversi verificare se l’autorizzazione al rilascio del passaporto in effetti “rappresenti una valutazione su una forma gestoria espressa dal giudice tutelare nell’interesse dei figli, come tale non ricorribile” (rectius, non suscettibile di radicare un ricorso per cassazione contro il provvedimento emesso a conclusione del reclamo), o piuttosto “un provvedimento con cui si valuta la concreta compatibilità dell’espatrio del genitore con l’interesse del minore”.
Ha inoltre segnalato l’eventualità di introdurre un concetto più elastico – quale quello di decisorietà di fatto – quanto allo specifico provvedimento giurisdizionale in esame, perché rispetto ai minori i diritti soggettivi, pur garantiti dalle modifiche introdotte dagli artt. 315 e seg. cod. civ., possono subire una perdita definitiva o un pregiudizio irreparabile per lo stesso fluire del tempo, specie laddove si tratti di minori che si avviano al conseguimento della maggiore età.
Richiamato l’insegnamento di cui alla sentenza n. 20443 del 2020 di queste Sezioni Unite – che ai fini della giurisdizione, in rapporto all’ambito riservato al giudice amministrativo, ha messo in risalto il diverso spessore della cognizione del giudice tutelare, sempre tenuto a valutare la rispondenza del mancato consenso del genitore all’interesse dei minori e il carattere non pretestuoso del diniego, nonché la concreta compatibilità dell’espatrio del genitore con l’interesse del minore stesso -, e ricordato che una tale attività di ponderazione postula comunque un’istruttoria condotta nel pieno rispetto dei principi del contraddittorio, di proporzionalità, di temporaneità e di non automatismo della misura restrittiva, secondo quanto espresso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con sent. 2-12-2014, in causa Battista c. Italia (parimenti citata dalle Sezioni Unite), la Prima sezione ha concluso ipotizzando che la questione sottesa, della natura del provvedimento emesso dal giudice tutelare in sede di rilascio del passaporto, conduca a intravedere – nel caso di diniego degli interessi dei minori – una forma di decisorietà di fatto, compromissoria dei loro diritti a causa del tempo occorrente per riproporre le medesime questioni e ottenere un diverso provvedimento satisfattivo’ e che quindi presenti i caratteri della “questione di massima di particolare importanza”, tale da imporre un intervento delle Sezioni Unite sul profilo della possibilità di tutela offerta dal ricorso straordinario di cui all’art. 111 Cost.
III. – La questione rimessa alle Sezioni Unite ha per oggetto l’interrogativo se sia o meno consentito il ricorso straordinario per cassazione contro il decreto emesso dal tribunale in sede di reclamo avverso il provvedimento adottato dal giudice tutelare all’esito della procedura avviata ai sensi dell’art. 3, b), della l. n. 1185 del 1967.
IV. – Il quadro normativo sul quale si innesta la tematica è il seguente.
L’art. 3, lett. b), della l. n. 1185 del 1967, nel testo che rileva in causa, conseguente dapprima alla declaratoria di incostituzionalità di quello originario più restrittivo (C. cost. n. 464 del 1997), poi alla l. n. 3 del 2003 e, quindi, ulteriormente, al d.l. n. 273 del 2005 nel testo integrato in sede di conversione (l. n. 51 del 2006), è formulato (per la parte che interessa) in questo modo:
“Non possono ottenere il passaporto:
a) (..);
b) “i genitori che, avendo prole minore, non ottengano l’autorizzazione del giudice tutelare; l’autorizzazione non è necessaria quando il richiedente avvia l’assenso dell’altro genitore, o quando sia titolare esclusivo della potestà sul figlio ovvero, ai soli fini del rilascio del passaporto di servizio, quando sia militare impiegato in missioni militari internazionali“.
L’art. 4 del medesimo testo indica i provvedimenti in questione come appartenenti alla volontaria giurisdizione:
– “I provvedimenti di volontaria giurisdizione previsti dal precedente articolo sono emessi, nei confronti dei cittadini residenti all’estero, dal capo dell’ufficio consolare di prima categoria nella cui giurisdizione territoriale risiedono, ai sensi dell’articolo 35 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 200.“.
A fronte del rilascio del passaporto in presenza delle condizioni di legge, il successivo art. 12 (sempre nel testo pro tempore vigente) disciplina la fattispecie del ritiro:
– “Il passaporto è ritirato, a cura di una delle autorità indicate all’articolo 5, quando sopravvengono circostanze che ai sensi della presente legge ne avrebbero legittimato il Il passaporto è altresì ritirato quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari che derivano da pronuncia della autorità giudiziaria o che riguardino i discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro, gli ascendenti e il coniuge non legalmente separato. Il passaporto può essere infine ritirato quando il titolare del passaporto sia un minore e venga accertato che abitualmente svolge all’estero attività immorali o vi presti lavoro in industrie pericolose o nocive alla salute. Il passaporto ritirato viene restituito al titolare a sua richiesta non appena vengano meno i motivi del ritiro“.
Il testo della citata legge del 1967 è stato da ultimo ulteriormente modificato dal recente d.l. 13 giugno 2023, n. 69, recante “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi derivanti da atti dell’Unione europea e da procedure di infrazione e pre-infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano”.
L’art. 20 in particolare ha soppresso l’anteriore lett. b) dell’art. 3 sostituendola nel seguente modo:
“b) coloro nei confronti dei quali sia stata emessa l’inibitoria prevista dall’articolo 3-bis“.
Sempre il citato d.l. ha ulteriormente modificato il testo della l. n. 1185 del 1967.
Da un lato ha inserito, dopo l’art. 3, il seguente art. 3-bis:
– “1. Il giudice, nel rispetto del principio di proporzionalità e avuto riguardo alla normativa unionale e internazionale sulla cooperazione giudiziaria in tema di responsabilità genitoriale, obbligazioni alimentari e sottrazione internazionale di minori, può inibire il rilascio del passaporto al genitore avente prole minore, quando vi è concreto e attuale pericolo che a causa del trasferimento all’estero questo possa sottrarsi all’adempimento dei suoi obblighi verso i figli. Il giudice stabilisce la durata dell’inibitoria, che non può superare due anni.
2. La domanda di inibitoria si propone con ricorso al tribunale ordinario del luogo in cui il minore ha la residenza Quando è pendente tra le stesse parti uno dei procedimenti di cui all’articolo 473-bis del codice di procedura civile, la domanda si propone al giudice che procede. Se il minore è residente all’estero, la domanda si propone al tribunale del luogo di ultima residenza in Italia o al tribunale nel cui circondario si trova il suo comune di iscrizione AIRE.
3. Il ricorso può essere proposto dal pubblico ministero o dall’altro genitore o da colui che esercita la responsabilità Il giudice procede in camera di consiglio ai sensi degli articoli 737 e seguenti del codice di procedura civile e con il provvedimento che definisce il giudizio provvede sulle spese del procedimento. Copia del provvedimento che inibisce il rilascio del passaporto è trasmessa, a cura della cancelleria, al Ministero dell’interno-Dipartimento della pubblica sicurezza, all’autorità individuata a norma dell’articolo 5 e al comune di residenza dell’interessato.“.
Dall’altro ha modificato (in coerenza) i riferimenti dell’art. 4, primo comma, previa sostituzione delle parole “dal precedente articolo” con le parole “dall’articolo 3“.
Infine, quanto al ritiro del passaporto, il d.l. citato ha modificato pure il secondo comma dell’art. 12, nel seguente modo:
– “Il passaporto è altresì ritirato quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari, di mantenimento, di assegno divorzile o di assegno conseguente allo scioglimento dell’unione civile che derivano da pronuncia della autorità giudiziaria o che riguardino i discendenti di età minore ovvero portatori di handicap grave o inabili al lavoro, gli ascendenti e il coniuge non legalmente separato“.
V. – E’ appena il caso di osservare che le recentissime norme citate da ultimo non sono direttamente applicabili ai procedimenti come quello in esame, instaurati prima dell’entrata in vigore del l. n. 69 del 2023.
Questi rimangono soggetti al testo previgente degli artt. 3 e 4 della l. n. 1185 del 1967.
Possiedono tuttavia, quelle recentissime norme, un indubbio significato sul versante ermeneutico, per la soluzione di questioni qualificatorie anche relative alle norme anteriori, perché sono state adottate (come emerge dal preambolo del testo) in considerazione della duplice necessità: (a) di ridurre, in considerazione del “numero complessivo delle procedure di infrazione avviate dalla Commissione europea nei confronti della Repubblica italiana” (superiore alla media degli altri Stati membri della UE con essa comparabili), “il numero di dette procedure, nonché per evitare l’applicazione di sanzioni pecuniarie ai sensi dell’articolo 260, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)”, e (b) di “prevenire l’apertura di nuove procedure di infrazione o l’aggravamento di quelle esistenti”.
Questo ha d’altronde giustificato, sempre in base al preambolo, l’apprezzamento delle situazioni di “straordinaria necessità ed urgenza” attraverso “l’immediato adeguamento dell’ordinamento nazionale agli atti normativi dell’Unione europea e alle sentenze della Corte di giustizia”.
Tenuto conto di ciò non può affermarsi che (soprattutto) la scelta del legislatore, di mantenere fermo il modello camerale per tali tipologie di procedimenti ma di disciplinarne la struttura (poi) in modo consono alla funzione di decidere su interessi tra loro potenzialmente confliggenti, sia priva di rilievo in rapporto alla qualificazione giuridica.
Il problema qualificatorio già metodologicamente dovrebbe precedere qualunque trattazione di un istituto giuridico. Ma è chiaro che si pone con particolare forza in rapporto alla presente fattispecie e alle norme qui applicabili, per la necessità di stabilire se l’analisi della struttura e dei fini del procedimento, da esse stesse declinato con pochissimi riferimenti, possa consentire di mantenere inalterata la formula – alla quale unicamente si è affidato fin qui l’orientamento giurisprudenziale dominante – della volontaria giurisdizione.
Tra le previsioni introdotte dal menzionato d.l. è di particolare rilievo, per i risvolti interpretativi, il riferimento del primo comma dell’art. 3-bis al presupposto integrato dal concreto e attuale pericolo che a causa del trasferimento all’estero il genitore richiedente possa sottrarsi all’adempimento dei suoi obblighi verso i figli. E’ tale d’altronde il presupposto che emerge, come tra un momento si dirà, anche dallo stato della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale.
In prospettiva di un esame funzionale assolve a una funzione chiarificatrice la previsione volta a specificare che il provvedimento, che definisce il giudizio secondo le norme del procedimento camerale, provvede infine sulle spese. Anche simile previsione sottende difatti l’esistenza di un conflitto intersoggettivo, per la necessità di assicurare, quanto al procedimento in questione, il contraddittorio tecnico tra parti contrapposte.
VI. – L’analisi del dato giurisprudenziale va posta accanto al dato normativo.
Può così osservarsi che l’orientamento di questa Corte, formatosi sul testo anteriore della l. n. 1185 del 1967, è consolidato.
Ma lo è per una ragione specifica.
Si assume che, quando difetti l’assenso dell’altro genitore, non è ravvisabile il carattere di definitività e decisorietà nel provvedimento emesso dal tribunale in esito al reclamo avverso il decreto del giudice tutelare che abbia concesso o negato l’autorizzazione al rilascio del passaporto perché si tratta di un provvedimento di volontaria giurisdizione, come espressamente enunciato nell’art. 4 della citata legge n. 1185 del 1967: un provvedimento rivolto, cioè, non a dirimere in via definitiva un conflitto tra diritti soggettivi (dei genitori del minore, in rappresentanza di questi), ma a valutare la corrispondenza del mancato assenso di uno di loro all’interesse del figlio’ e dunque espressivo di una forma gestoria dell’interesse del minore medesimo.
Nella volontaria giurisdizione discorrere di definitività non ha senso, perché il provvedimento è sempre rivedibile anche mediante una rivalutazione (ab ovo) dei suoi fondamenti di opportunità.
A sua volta la decisorietà è da sempre negata ai provvedimenti di volontaria giurisdizione proprio perché con tali provvedimenti non si decide su posizioni di diritto soggettivo in funzione di definizione di controversie ma si assumono semplici misure, diverse per contenuto (normalmente integrate da pareri, dispense, nomine, autorizzazioni, omologazioni, assensi e via dicendo) e tuttavia sempre finalizzate alla cura di situazioni monosoggettive.
Il provvedimento in esame viene dalla giurisprudenza dominante annoverato tra quelli di volontaria giurisdizione.
E quindi per esso, ancorché adottato in sede di reclamo, si reputa non ammissibile il ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 cost. (tra le recenti Cass. Sez. 1 n. 11771-10, Cass. Sez. 1 n. 2696-13, Cass. Sez. 6-1 n. 21667-15, Cass. Sez. 1 n. 4799-22).
VII. – Va nondimeno preso atto di alcuni dati rappresentativi dell’evoluzione dell’ordinamento in senso distonico rispetto al margine qualificante di tale opzione.
Le forme della giurisdizione volontaria rispondono al modello camerale di decisione.
E tuttavia il modello camerale è stato nel tempo variamente impiegato dal legislatore anche per la tutela dichiarativa dei diritti.
A sua volta il concetto di decisorietà – tradizionalmente imperniato sulla idoneità del provvedimento al giudicato in ordine alla situazione soggettiva coinvolta, quale che sia la forma del provvedimento stesso, purché codesto sia altresì definitivo, vale a dire insuscettibile di distinta impugnazione e non destinato a essere assorbito in un provvedimento ulteriore a sua volta impugnabile – ha conosciuto una ulteriore evoluzione in chiave di compatibilità costituzionale.
Ai fini della garanzia costituzionale di cui all’art. 111 Cost. quel concetto è stato affinato in senso relativo, così da renderlo coerente con le caratteristiche del modello processuale di volta in volta prescelto dal legislatore per la tutela dei diritti.
La garanzia costituzionale di cui all’art. 111 Cost. mira a contrastare il pericolo di applicazioni non uniformi della legge con provvedimenti suscettibili di passare in giudicato, cioè con provvedimenti tipici ed esclusivi della giurisdizione contenziosa, mediante i quali “il giudice, per realizzare la volontà di legge nel caso concreto, riconosce o attribuisce un diritto soggettivo, oggetto di contestazione, anche solo eventuale, nel contraddittorio delle parti”. Così in vero si espresse (in motivazione) una lontana ma sempre condivisibile decisione di questa Corte (Cass. Sez. 1 n. 824 del 1971), aprendo la via al nesso tra i requisiti all’uopo rilevanti: l’attitudine del provvedimento a incidere su diritti soggettivi con quella particolare efficacia che corrisponde al giudicato e che è oggetto tipico della giurisdizione contenziosa, e di farlo nel contesto di una controversia tra parti contrapposte chiamate a misurarsi in contraddittorio tra loro.
Non può negarsi che questo tipo di provvedimenti, tipici della giurisdizione contenziosa, siano stati in periodo recente sempre più spesso surrogati (nella forma) dall’utilizzazione del modello camerale di definizione del giudizio concluso da un decreto.
Tale constatazione ha indotto queste Sezioni Unite a confermare l’esistenza della caratteristica della decisorietà in distinte fattispecie non allineate al modello ordinario del processo, fino a indurre alla tesi che “la decisorietà, dunque, consiste nell’attitudine del provvedimento del giudice non solo ad incidere su diritti soggettivi delle parti, ma ad incidervi con la particolare efficacia del giudicato (nel che risiede appunto la differenza tra il semplice “incidere” e il “decidere” (..) “: il quale giudicato è un “effetto tipico della giurisdizione contenziosa”.
Tale non è quella che si realizza (necessariamente) nel processo (ordinario o speciale) di cognizione, quanto piuttosto quella “che si esprime su una controversia, anche solo potenziale, fra parti contrapposte, chiamate (..) a confrontarsi in contraddittorio nel processo” (v. Cass. Sez. U n. 26989-16 e Cass. Sez. U n. 27073-16, rispettivamente relative ai decreti conclusivi dei giudizi di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti e della proposta di concordato preventivo).
VIII. – Occorre aggiungere che sui riferiti principi oggi si registra una sostanziale continuità di interpretazioni, con la specificazione che se invece il provvedimento al quale il processo è preordinato non costituisce espressione del potere-dovere del giudice di decidere controversie tra parti contrapposte, in cui ciascuna tende all’accertamento di un proprio diritto soggettivo nei confronti dell’altra, esso non può avere contenuto sostanziale di sentenza, né carattere decisorio, finanche ove non sia suscettibile di alcuna forma di impugnazione.
Di massima si tratta di provvedimenti ritenuti sempre revocabili per motivi sia sopravvenuti che preesistenti.
In altri casi si tratta di provvedimenti relativi sì alla tutela del diritto soggettivo, ma non definitivi.
Indicativamente possono essere citate a guisa di esempio:
– Cass. Sez. U n. 3073-03 (quanto ai provvedimenti resi in tema di omologazione, iscrizione e pubblicazione di deliberazioni assembleari di società, secondo le previsioni degli artt. 2411 e 2436 cod. civ. nella disciplina anteriore all’entrata in vigore delle norme di semplificazione dettate dall’art. 32 della legge 24 novembre 2000, n. 340)
– Cass. Sez. U n. 11026-03 (quanto ai provvedimenti, ritenuti emessi in sede di volontaria giurisdizione, che limitino o escludano la potestà dei genitori naturali ai sensi dell’art. 317-bis cod. civ., che pronuncino la decadenza dalla potestà sui figli o la reintegrazione in essa, ai sensi degli artt. 330 e 332 cod. civ., che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei genitori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell’art. 333 cod. civ., o che dispongano l’affidamento contemplato dall’art. 4, secondo comma, della legge 4 maggio 1983, n. 184)
– e ben vero nella stessa materia già Cass. Sez. U n. 6220-86, Cass. Sez. U n. 1026-95, Cass. Sez. U n. 3387-98
– e poi ancora Cass. Sez. U n. 1914-16 (in relazione all’ordinanza di inammissibilità dell’appello resa ex art. 348-ter cod. proc. civ., ritenuta ricorribile per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., solo per i vizi suoi propri costituenti violazioni della legge processuale, perché quanto alla tutela del diritto soggettivo essa non è definitiva – e quindi neppure decisoria – essendo previsto il ricorso contro la sentenza di primo grado).
IX. – Sempre su base evolutiva non può esser taciuta infine la tendenza giurisprudenziale a relativizzare il concetto stesso di attitudine al giudicato mediante la via del giudicato allo stato degli atti.
In particolare deve tenersi conto della precisazione più recentemente fatta da queste Sezioni Unite a proposito dei provvedimenti de potestate emessi dal giudice minorile ai sensi degli artt. 330 e 333 cod. civ.
In quel caso si è detto che i provvedimenti possiedono attitudine al giudicato rebus sic stantibus in quanto non sono revocabili o modificabili salva la sopravvenienza di fatti nuovi.
E quindi si è affermato che il decreto della corte d’appello che, in sede di reclamo, conferma, revoca o modifica i predetti provvedimenti, è impugnabile mediante ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 111 cost. (Cass. Sez. U n. 32359-18, cui adde conf. Cass. Sez. 6-1 n. 1668- 20, Cass. Sez. 1 n. 17177-20, Cass. Sez. 1 n. 9691-22).
Se si tiene a mente ciò che all’inizio si è detto a proposito del sempre più consistente margine di utilizzazione del modello camerale in sede legislativa, pure oltre l’ambito viceversa fisiologico della giurisdizione (sostanzialmente) volontaria, che presuppone un modello destinato alla mera cura di interessi, l’orientamento così integrato non equivale a un ribaltamento totale, perché l’enunciato è stato giustificato con la considerazione che si ha a che fare con provvedimenti tesi per loro stessa natura a dirimere conflitti tra posizioni soggettive diverse in correlazione con la ristrutturazione del procedimento discendente dalla n. 154 del 2013; la quale ha per l’appunto tradotto il procedimento alla stregua di un modello dialettico pur sempre contenzioso (art. 336, secondo comma, cod. civ.), caratterizzato in particolar modo dalla previsione (art. 336, quarto comma, cod. civ.) dell’onere del patrocinio di un difensore per ciascuna delle parti coinvolte e destinato a culminare in un provvedimento (non provvisorio ma) conclusivo.
In ciò si giustifica la puntualizzazione della citata sentenza n. 32359 del 2018 – questa sì in effetti generalizzabile – circa il non essere di per sé la previsione del procedimento camerale (art. 38 att. cod. civ.) univoca per escludere l’idoneità alla formazione di un giudicato dei provvedimenti emessi al suo esito.
Si giustifica proprio perché il riferimento è al giudicato compatibile con le fattispecie provvedimentali conclusive di questo tipo di procedimenti: il giudicato rebus sic stantibus.
X. – La fattispecie in esame concerne il procedimento di cui alla l. n. 1185 del 1967.
La caratteristica essenziale di questa fattispecie è costituita dalla strutturazione certamente definitiva del provvedimento che conclude il reclamo.
Tale è anche la conclusione implicitamente divisata dal precedente del 2018 quanto ai provvedimenti de potestate assunti dal tribunale per i minorenni’ e quella conclusione era negata – di contro – in molte delle anteriori decisioni appena sopra richiamate (nel solco soprattutto di Cass. Sez. U n. 6220-86).
Ne segue che la giurisprudenza è progredita pure da questo punto di vista.
Ma anche a volerne prescindere, è un fatto che una eguale negazione del dato di partenza non può minimamente predicarsi nel distinto frangente che qui rileva, nel senso che in questo caso s scorre di un decreto camerale indiscutibilmente definitivo.
Il reclamo ex lege n. 1185 del 1967 si risolve in un provvedimento non impugnabile né destinato a essere assorbito in una decisione “altra”, a sua volta impugnabile.
Ed è evidente la definitività perché l’autorizzazione al rilascio del passaporto, una volta data, trova il contrappeso nella sola fattispecie del ritiro, nelle condizioni peraltro di cui all’art. 12: vale a dire quando “sopravvengono circostanze” (id est, intervengono circostanze nuove) che ne avrebbero legittimato il diniego.
A sua volta, se negata a motivo dell’inadempienza del richiedente agli obblighi di legge, l’autorizzazione può essere simmetricamente rilasciata solo dinanzi alla sopravvenienza di nuove circostanze integrata dalla prova dell’adempimento di quegli obblighi.
Che quindi si tratti di provvedimento definitivo non è dubitabile.
L’autorizzazione, data o negata in sede di reclamo, non è invero destinata a essere assorbita in un provvedimento diverso a sua volta impugnabile.
XI. – Ai fini della garanzia di cui all’art. 111 il nodo si sposta, allora, sull’esame del requisito di decisorietà.
In questa prospettiva il passaggio dall’attitudine al giudicato all’attitudine alla stabilizzazione degli effetti sulla situazione giuridica tutelata (nel che si traduce la clausola rebus sic stantibus) diventa centrale.
Solo una tal stabilizzazione può integrare il dato della decisorietà in unione col dispiegarsi della forma camerale, perché codesta è l’unica caratteristica sostenibile nell’alveo della garanzia costituzionale dell’art. 111 cost. per questo tipo di processi.
Come accennato, al modello camerale il legislatore è solito ricorrere, oggi sempre di più, come forma alternativa di realizzazione della legge quando l’obiettivo da perseguire è la rapidità della decisione, anche se riferita al riconoscimento e all’attribuzione di diritti soggettivi.
E difatti l’essenza della giurisdizione (in senso proprio) è da individuare al di là della forma, perché l’essenza – come efficacemente è stato detto – manifesta lo scopo, e lo scopo non è altro che l’aspetto dinamico dell’effetto rispetto al contenuto del provvedimento, come mezzo di realizzazione.
Questa sintesi tiene conto di entrambi i profili che rilevano, quello strutturale e quello funzionale, e consente di ribadire che ai fini specifici interessa solo che il provvedimento terminale aspiri a dichiarare (o ad accertare) il diritto nel caso concreto, per risolvere imperativamente un conflitto di interessi.
In ciò è il fondamento della giurisdizione contenziosa qualunque sia il modello formale prescelto, perché per ravvisare l’effetto dichiarativo deve aversi riguardo al contenuto della pronuncia in rapporto all’oggetto del processo, e il legislatore è sempre libero di stabilire che si pervenga all’accertamento e alla tutela del diritto soggettivo con un procedimento in camera di consiglio. L’art. 111 cost. vieta infatti di sottrarre al sindacato di legittimità i provvedimenti a contenuto decisorio, ma non impone di impiegare la forma del processo di cognizione per l’accertamento del diritto.
Nei diversi casi in cui il diritto risulti oggetto di contestazione nel contraddittorio delle parti, le forme del processo camerale vengono adoperate per la tutela dichiarativa e il provvedimento finisce con l’assumere in ogni caso una funzione contenziosa.
Questa cosa massimamente accade quando oggetto della decisione siano i diritti o gli status e quando il provvedimento a essi relativo conduca a una sorta di giudicato tale da non poter essere modificato che per fatti o situazioni sopravvenute, così da stabilizzarsi – altrimenti – allo stato degli atti.
Una siffatta possibilità di impiego alternativo del concetto è stata d’altronde legittimata da queste stesse Sezioni Unite fin da quando esse si sono occupate dei decreti emessi in camera di consiglio dalla corte d’appello a seguito di reclamo avverso i provvedimenti emanati dal tribunale sull’istanza di revisione delle disposizioni accessorie alla separazione’ decreti che, in quanto incidenti su diritti soggettivi delle parti, nonché caratterizzati “da stabilità temporanea”, che li rende idonei “ad acquistare efficacia di giudicato, sia pure rebus sic stantibus“, sono stati appunto ritenuti impugnabili col ricorso straordinario ai sensi dell’art. 111 Cost. (v. Cass. Sez. U n. 22238-09).
XII. – Riannodando sinteticamente il discorso sui riferiti punti, può quindi affermarsi che:
(a) l’art. 111, settimo comma, è garanzia del diritto di chi sia (stato) parte di un procedimento da svolgere in contraddittorio con una parte contrapposta, in funzione dichiarativa di un proprio diritto soggettivo;
(b) da ciò resta integrata la garanzia costituzionale del ricorso per cassazione in ordine al provvedimento conclusivo di quel procedimento, qualunque ne sia la forma, secondo il concetto di decisorietà;
(c) nelle fattispecie procedimentali soggette al modello camerale, la caratteristica di decisorietà, cui si collega la garanzia costituzionale del ricorso per cassazione per violazione di legge, parimenti attinge la natura sostanziale del provvedimento ove questo sia destinato a decidere su posizioni soggettive contrapposte, ed è integrata dal caso che si tratti di provvedimenti suscettibili di stabilizzazione perché per loro natura non provvisori e non suscettibili di assorbimento in decisioni “altre”: provvedimenti modificabili – sì – ma solo in forza del sopravvenire di circostanze nuove e diverse, secondo i canoni del giudicato allo stato degli atti o, come anche suol dirsi, del giudicato rebus sic stantibus.
XIII. – Coi superiori principi vanno a questo punto comparate le caratteristiche del decreto che decide il reclamo ai sensi dell’art. 3 della l. n. 1185 del 1967.
Come detto all’inizio, la verifica deve essere svolta in rapporto al testo che rileva in causa: che è quello previgente rispetto al d.l. n. 69 del 2023.
Ma è ovvio che il menzionato intervento normativo non è totalmente ininfluente.
Esso difatti costituisce sintomo di una ben definita linea di tendenza del legislatore nazionale a coonestare sul piano del procedimento – onde prevenire possibili infrazioni al diritto comunitario – l’ambito funzionale e il connotato contenutistico del decreto autorizzativo previsto dalla ripetuta l. n. 1185 del 1967, che risulti emesso a conclusione di un reclamo.
XIV. – Si è anticipato che la consolidata giurisprudenza di questa Corte ascrive il provvedimento in questione – in senso formale – all’ambito della volontaria giurisdizione, per l’indicazione contenuta nell’art. 4 della citata legge.
Quello della volontaria giurisdizione è un ambito non contemplato dall’art. 111, settimo comma, Cost., per la già vista fondamentale ragione che la giurisdizione volontaria si distingue dalla giurisdizione contenziosa, non essendo rivolta alla tutela dichiarativa su diritti.
Questa puntualizzazione generale continua ad avere una sua validità, ma alla condizione che l’appartenenza di un provvedimento alla giurisdizione volontaria sia effettiva anche dal punto di vista concreto e sostanziale – vale a dire al di là della forma.
Non serve allargare il discorso sul profilo definitorio, per la nota e mai sopita disputa dottrinale sull’essenza (amministrativa, giurisdizionale o mista) della categoria alla quale ci si riferisce.
L’elemento fondamentale è dato dal riconoscimento della funzione del giudice, perché come da gran tempo si dice (anche in dottrina) nella giurisdizione volontaria la funzione del giudice non è quella di risolvere in posizione di terzietà un conflitto tra posizioni soggettive diverse (nel che si sostanzia la tutela dichiarativa su diritti), ma semplicemente quello di curare interessi. E la semplice cura di interessi è incompatibile con una qualunque attività propriamente decisoria, perché (come ancora efficacemente è stato sottolineato) ne difetterebbero finanche i presupposti di base, come quello (assolutamente pregiudiziale) di imparzialità dell’organo competente.
Reputano le Sezioni Unite che l’orientamento fin qui dominante, incentrato sull’appartenenza alla giurisdizione volontaria del provvedimento che decide il reclamo avverso il decreto del giudice tutelare di autorizzazione al rilascio del passaporto a favore di genitore di figli minori, non può esser mantenuto.
Più ancora che l’inconveniente pratico messo in risalto dall’ordinanza interlocutoria – inconveniente certo esistente e niente affatto marginale, per la possibilità della eventuale perdita definitiva e del pregiudizio irretrattabile del diritto del minore per lo stesso fluire del tempo, ove l’opposizione dell’altro genitore sia motivata dalle inadempienze del richiedente – risolutive appaiono le indicazioni provenienti dalla Corte costituzionale, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e infine dalla stessa Corte di giustizia della UE’ le quali tutte convergono verso la conclusione opposta, e cioè che il procedimento serve alla tutela di diritti in senso proprio.
XV. – La tipologia di situazioni giuridiche incise dall’autorizzazione al rilascio del passaporto è agevolmente definibile in base alle precisazioni fatte innanzi tutto dalla Corte
Al fondo del diritto di ottenere il rilascio del passaporto l’art. 16 Cost. pone un chiaro riferimento alla salvezza degli eventuali obblighi di legge: “ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge“.
La Corte costituzionale ha affermato che la regola generale a cui si ispira la legge n. 1185 del 1967 in tema di rilascio del passaporto al genitore di prole minore è quella della necessaria autorizzazione del giudice tutelare “a garanzia dell’assolvimento, da parte del genitore, dei suoi obblighi verso i figli” (C. cost. n. 464 del 1997).
XVI. – Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto che la ratio ispiratrice della legge 1185 del 1967 è quella di “garantire l’assolvimento da parte del genitore dei suoi obblighi verso i figli” (sent. 2-12-2014, in causa Battista c. Italia, citata dall’ordinanza interlocutoria), e ha specificato che la stessa libertà di circolazione può essere compressa, ai sensi dell’art. 2, par. 3, del 4° Protocollo addizionale della Cedu, nei casi espressamente previsti dalla legge interna di uno Stato per uno dei motivi elencati nella disposizione convenzionale.
Da questo punto di vista è stato detto più volte che il Protocollo non osta a che l’esercizio del diritto di una persona di lasciare il Paese sia subordinato al rispetto di requisiti formali quali l’ottenimento di un documento di viaggio valido (il passaporto) o di un visto o del consenso dei genitori o della decisione del tribunale che autorizza il viaggio di un minore (cfr. la sent. 30-3-2017, causa Iovita c. Romania, e la sent. 12- 2-2015, causa Lolova c. Bulgaria).
Quel che rileva, per la legge italiana, quale base legale di ingerenza del giudice tutelare, è quindi che la misura si prefigga di garantire “gli interessi dei figli del ricorrente e di perseguire per principio un obiettivo legittimo di tutela dei diritti altrui”: in particolare dei diritti dei figli “che devono ricevere l’assegno alimentare”, salva rimanendo l’assicurazione di proporzionalità della restrizione imposta, da perseguirsi evitando, secondo le circostanze, che la stessa sia automaticamente mantenuta “per molto tempo” (così ancora la sent. 2- 12-2014, causa Battista c. Italia, da cui i virgolettati).
Dire che la restrizione non può essere “automaticamente” mantenuta a tempo indefinito vuol dire che la stessa è modificabile. Ma lo è solo perché si impone sempre il riscontro della persistenza del suo fondamento nel tempo, in base a fatti o a circostanze sopravvenuti.
XVII. – In un’ottica similare lo strumento dettato dalla legge 1185 del 1967 è ritenuto infine compatibile con l’art. 45 della Carta dei diritti fondamentali della UE e all’art. 21 del TFUE.
La Corte di giustizia della UE anche recentemente ha ribadito che una misura nazionale idonea a ostacolare l’esercizio della libera circolazione delle persone può essere giustificata ove sia conforme (e solo se conforme) ai diritti fondamentali sanciti dalla Carta (v. C. giust. 14-12-2021, in causa C-490/2020).
Ciò determina che il giudice tutelare, prima, e il tribunale in sede di reclamo poi, possano autorizzare o negare il rilascio del passaporto al genitore di prole minore valutando e decidendo se la limitazione del diritto alla libertà di circolazione del genitore suddetto sia essa stessa necessaria in ragione della preminente salvaguardia dei diritti dei minori.
In buona sostanza:
– il provvedimento serve alla funzione, che è quella di evitare che il genitore, espatriando, si sottragga ai propri doveri verso i figli minori
– implica una decisione su diritti contrapposti
– resta legittimato dal fatto che l’eventuale decisione negativa non rimanga automaticamente in vigore a tempo indeterminato, proprio perché la stessa potrebbe diventare sproporzionata in ragione del mutamento di quelle circostanze che all’inizio l’avevano giustificata.
XVIII. – Sulla base di tali considerazioni è allora possibile formulare la seguente complessiva risposta alla questione di massima indicata dall’ordinanza interlocutoria:
(i) la qualificazione del decreto che decide sul reclamo relativamente al rilascio del passaporto nei confronti di genitore di prole minore non è e non può essere quella di un semplice provvedimento di volontaria giurisdizione
(ii) non può esserlo perché al fondo non c’è la semplice cura degli interessi in gioco, ma la vera definizione di un conflitto intersoggettivo nel profilo che inerisce alla tutela del diritto del minore a ricevere dai genitori l’adempimento degli obblighi di mantenimento, istruzione, educazione e assistenza anche morale (art. 147 civ.) in contrapposizione col diritto del genitore di munirsi del titolo che gli consenta di esercitare la libertà garantita (salvi gli obblighi di legge) dall’art. 16 Cost.;
(iii) da ciò è integrata la natura sostanzialmente contenziosa del procedimento oppositorio del reclamo, procedimento il quale – al di là dell’essere stato prescelto il più duttile e sollecito modello camerale di definizione – deve considerarsi strutturato in coerenza col profilo contenutistico e funzionale;
(iv) questa caratteristica – oggi esplicitamente recepita dalla novellazione di cui al l. n. 69 del 2023 – imprime al decreto finale quella valenza decisoria che è insita nella natura contenziosa del procedimento teso a contestare il presupposto del rilascio dell’autorizzazione; difatti gliela imprime in un ambito evidente di definitività, perché un’autorizzazione del genere o è concessa o non lo è, e una volta seguita dall’espatrio ha raggiunto anche il suo fine pratico; sicché il provvedimento di autorizzazione, che sia adottato o confermato in sede di reclamo, è definitivo, non essendo altrimenti impugnabile né destinato a essere assorbito in un provvedimento distinto a sua volta impugnabile;
(v) la duplice valenza legittima l’assoggettamento del decreto al ricorso straordinario secondo l’uniforme soluzione alla quale è stata ancorata – nel periodo più recente – la nozione di decisorietà in modo compatibile col dispiegarsi della tutela camerale’ in vero questaesta è l’unica conclusione sostenibile nell’alveo della garanzia costituzionale dell’art. 111, settimo comma, , rimanendo la decisorietà integrata dall’attitudine del decreto, così esitato, a un giudicato allo stato degli atti.
XIX. – Il ricorso per cassazione è quindi nel caso concreto ammissibile.
XX. – Il ricorso è anche fondato in relazione ai primi due motivi, con assorbimento degli altri.
Il tribunale ha reso la decisione affermando che niente era stato prodotto dalla reclamante a riprova dell’attuale condizione lavorativa dell’obbligato e della dedotta sua inadempienza agli obblighi di mantenimento dei figli, né di un più generale suo disinteresse alle esigenze economiche della prole. Ha ravvisato una contraddizione in quanto dichiarato dalla moglie a proposito dell’inadempimento degli obblighi del marito verso la prole, perché l’inadempimento sarebbe stato indicato dapprima come esistente in coincidenza col momento dell’allontanamento da casa (a seguito di denuncia sporta nel 2015) e poi come riferibile a un periodo di circa due mesi anteriori alle sommarie informazioni rese alla questura (2018). Ha concluso nel senso che comparando gli interessi sottesi alle posizioni dei coniugi il diritto del marito al rilascio del passaporto non potesse considerarsi recessivo “a fronte di mero timore muliebre”, essendo codesto timore insufficiente a motivare un legittimo dissenso.
XXI. – La motivazione è completamente deficitaria e integra un chiarissimo errore di diritto.
La decisione richiesta a riguardo dell’autorizzazione concretizza un giudizio di affidabilità del genitore di prole minore in ordine all’adempimento dei suoi obblighi, perché serve a evitare che il genitore, espatriando, si sottragga ai doveri verso i figli.
E’ insito nella citata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che non altri che sul genitore gravi l’onere di dimostrare, in caso di avversa contestazione, di essere adempiente e affidabile.
Difatti l’ingerenza giurisdizionale si spiega con la garanzia degli interessi dei figli minori del richiedente l’autorizzazione (v. anche sent. 17-12-2019, in causa Torresi c. Italia), e tali interessi sono preminenti perché i figli devono poter ricevere quanto è stabilito, non solo in termini economici, di riflesso al coacervo dei loro diritti (artt. 147 cod. civ. e 30 Cost.).
Del resto, il giudice ha il potere di revocare la già concessa autorizzazione, ritirando (art. 12 della legge cit.) il passaporto.
Il passaporto è ritirato “quando sopravvengono circostanze che ai sensi della presente legge ne avrebbero legittimato il diniego” e anche (in base al testo vigente pro tempore) “quando il titolare si trovi all’estero e, ad istanza degli aventi diritto, non sia in grado di offrire la prova dell’adempimento degli obblighi alimentari che derivano da pronuncia dell’autorità giudiziaria o che riguardino i discendenti di età minore ovvero inabili al lavoro, gli ascendenti e il coniuge non legalmente separato“.
E’ agevole desumere che la regola al fondo della disciplina di legge è esattamente inversa a quella ritenuta dal tribunale di Brescia.
Viene dalla legge esplicitamente attribuito al titolare del passaporto che si trovi all’estero l’onere di fornire la prova dell’avvenuto adempimento degli obblighi alimentari nei confronti dei figli minori, giacché la conseguenza del mancato assolvimento è il ritiro del passaporto.
Ecco così delineati gli oneri rispettivi: agli aventi diritto (e per essi all’altro genitore) non spetta altro che l’allegazione dell’altrui inadempimento, sia opponendosi al rilascio dell’autorizzazione, sia facendo istanza ex art. 12 una volta che l’autorizzazione sia stata rilasciata’ mentre è assegnato sempre all’obbligato l’onere di dimostrare, anche se abbia già ottenuto il passaporto, il rispetto dei doveri derivanti dalla qualità di genitore.
Il tribunale ha errato nel pretendere che fosse la reclamante a dover assolvere all’onere dimostrativo della “dedotta attuale inadempienza paterna agli obblighi di mantenimento dei figli o, comunque, di un più generale disinteresse (..) alle esigenze economiche della prole”. E ha errato anche nel dire che la comparazione degli interessi giuridici sottesi alle posizioni dei coniugi esprimesse un dato di preminenza del diritto del marito al rilascio del passaporto in funzione della sua “libertà di movimento”.
Una tale motivazione, evasiva e apodittica, non concretizza in fatto alcuna effettiva comparazione dei livelli di interesse, giacché la “libertà di movimento” del genitore di prole minore (per ripetere la formula impiegata dal giudice a quo) presuppone, in caso di opposizione, la previa dimostrazione dell’assolvimento degli obblighi di legge verso la medesima prole.
XXII. – Il ricorso va dunque accolto in relazione ai primi due motivi.
Gli altri sono assorbiti.
Il decreto deve essere cassato con rinvio al medesimo tribunale che, in diversa composizione, rinnoverà l’esame uniformandosi ai principi esposti.
Il tribunale provvederà anche sulle spese del giudizio svoltosi in questa sede legittimità.
p.q.m.
La Corte, a sezioni unite, accoglie i primi due motivi di ricorso, assorbiti gli altri, cassa il provvedimento e rinvia al tribunale di Brescia anche per le spese del giudizio di cassazione.
Dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza, siano omesse le generalità e gli altri dati significativi.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, addì 11 luglio 2023.
Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2023.
SENTENZA – copia non ufficiale -.
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(1) Muliebre: concernente la donna, per lo più sul piano degli attributi relativi ai pregi e alla dignità.
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