Reato di appropriazione indebita e richiesta di applicazione del beneficio dell’indulto (Corte di Cassazione, Sezione I Penale, Sentenza 18 gennaio 2022, n. 2063).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZAZA Carlo – Presidente

Dott. BRANCACCIO Matilde – Consigliere

Dott. PISTORELLI Luca – Consigliere

Dott. FIORDALISI Domenico – Rel. Consigliere

Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) AUGUSTO nato a LECCE il 27/03/19xx;

avverso l’ordinanza del 29/03/2021 della CORTE APPELLO di L’AQUILA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. DOMENICO FIORDALISI;

lette/sentite le conclusioni del PG;

Il Procuratore generale, Dott.ssa Paola Filippi, chiede il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. (OMISSIS) Augusto ricorre avverso l’ordinanza del 29 marzo 2021 della Corte di appello dell’Aquila che, quale giudice dell’esecuzione, ha rigettato l’opposizione ex art. 667, comma 4, cod. proc. pen. avverso il provvedimento del 3 febbraio 2021, con il quale la medesima Corte di appello aveva rigettato la richiesta di applicazione del beneficio dell’indulto della pena inflitta con la sentenza del 12 febbraio 2007 del Tribunale di Roma.

Il giudice dell’esecuzione ha evidenziato che, nel quinquennio successivo all’entrata in vigore della legge 31 luglio 2006, n. 241, (OMISSIS) aveva commesso il reato di bancarotta fraudolenta, in ordine al quale era stato condannato alla pena di anni due, mesi due di reclusione dalla Corte di appello dell’Aquila con sentenza del 24 ottobre 2011, definitiva il 5 febbraio 2014.

Tale circostanza, quindi, era ostativa alla concessione del beneficio richiesto.

2. Il ricorrente lamenta inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 174, primo e secondo comma, cod. pen. e 1, comma 3 (erroneamente indicato in ricorso come art. 3), legge 31 luglio 2006, n. 241, e vizio di motivazione dell’ordinanza impugnata, perché il giudice dell’esecuzione, nonostante avesse preso atto che nel provvedimento del 3 febbraio 2021 vi era l’erroneo convincimento che il reato di appropriazione indebita commessa fosse ostativo all’accoglimento della richiesta, avrebbe reiterato il medesimo errore con riferimento ai diversi reati oggetto della successiva sentenza del 24 ottobre 2011 della Corte di appello dell’Aquila.

In particolare, il ricorrente evidenzia di essere stato condannato per due diverse fattispecie, singolarmente considerate dal giudice della cognizione (artt. 216, comma 1, n. 1, e 223 r.d. 16 marzo 1942, n. 267), per le quali non era stata inflitta una pena superiore ad anni due di reclusione.

I reati, inoltre, seppur formalmente indicati come commessi il 13 febbraio 2007 (data della sentenza di fallimento), erano stati posti in essere prima dell’entrata in vigore della legge 31.7.2006 n. 241; i reati fallimentari, infatti, anche se si ritengono convenzionalmente configurati alla data della sentenza dichiarativa di fallimento, sono concretamente realizzati in data precedente.

Tali condotte, quindi, erano state poste in essere prima del quinquennio successivo alla data di entrata in vigore della legge n. 241 del 2006.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è manifestamente infondato.

1.1. La pena inflitta a (OMISSIS) per il reato più grave è ad anni due di reclusione, sicché essa non è inferiore alla soglia degli anni due di reclusione, come disposto dall’art. 1 comma 3, I. 31 luglio 2006 n. 241.

Il ricorrente, invece, ha fondato il motivo del ricorso sull’erronea premessa che la norma prevedesse una soglia diversa, costituita dal superamento del limite dei due anni di reclusione.

1.2. Anche il secondo argomento esposto in ricorso è manifestamente in contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Le implicazioni della ricostruzione della sentenza di fallimento nella fattispecie di bancarotta in termini di condizione obiettiva di punibilità ai sensi dell’art. 44 cod. pen. non impedisce di ritenere che ai fini dell’indulto essa mantiene la sua rilevanza essenziale.

La qualificazione della dichiarazione di fallimento come condizione ‘estrinseca di punibilità spiega, in termini coerenti con il sistema, le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza e soprattutto la piena rispondenza di queste ultime alle regole costituzionali in tema di responsabilità penale (art. 27, comma primo, Cost.).

Essa, peraltro, non è suscettibile di determinare alcun significativo mutamento nelle regole operative sin qui seguite.

Ciò è senz’altro vero, con riferimento alla disciplina della prescrizione, alla luce dell’art. 158, comma secondo, cod. pen., a mente del quale, quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dai giorno in culla condizione si è verificata.

Quest’ultima previsione (al pari dell’art. 44 cod. pen.) sembra confermare, sul piano dogmatico, che la condizione obiettiva di punibilità viene vista dal legislatore come elemento estraneo al reato, inteso nella sua dimensione di condotta già espressiva in termini compiuti di disvalore e, per quanto sopra ricordato (in particolare, v. Corte cost. n. 247 del 1989), meritevole di pena, sebbene ancora non necessitante di quest’ultima, secondo le indicate valutazioni di opportunità.

Tuttavia, lo stesso art. 158, comma secondo, cod. pen. dimostra che, nel dettare la disciplina delle questioni che presuppongono la consumazione del reato, è proprio il verificarsi della condizione che assume rilievo determinante.

Siffatta considerazione consente di affermare che il concetto di consumazione del reato di cui all’art. 8 cod. proc. pen., in assenza di vincolanti e diverse prescrizioni normative, deve appunto essere ricostruito nei termini di completa realizzazione della fattispecie incriminatrice (e si è sopra visto, come anche per Corte cost. n. 247 del 1989, la condizione obiettiva di punibilità rientri nella fattispecie).

La conclusione, oltre a garantire una piena equiparazione delle soluzioni in tema di tempus e di locus commissi delicti, la cui diversificazione non avrebbe senso alcuno, è coerente con le finalità delle norme che assumono la consumazione del reato a presupposto della loro applicabilità, giacché la condizione di punibilità, pur estranea, nella accezione che qui assume rilievo, all’offesa, comunque rappresenta il dato che giustifica l’intervento sanzionatorio dello Stato.

In altri termini, se pure è vero che, dal punto di vista dell’offesa, la massima gravità concreta del fatto si è raggiunta, in termini di disvalore, in epoca anteriore alla realizzazione della condizione, è però anche vero che, secondo quanto lo stesso legislatore mostra di ritenere, in presenza di una condizione di punibilità, occorre attribuire rilievo anche al momento (e quindi al luogo) in cui si realizza l’opportunità della punizione.

E ciò, secondo quanto osservato in dottrina, anche per l’esigenza di uno snello ed efficace funzionamento dei sistema giurisdizionale, in quanto la soluzione attribuisce l’accertamento delle condizioni che rendono opportuna l’applicazione della sanzione – e quindi il processo – al giudice del luogo in cui tali condizioni si sono verificate.

Del resto, in un precedente di questa Corte che ha avuto modo di occuparsi della questione, si è osservato che il reato non si esaurisce nella condotta umana imposta o vietata, ma comprende altresì tutte le componenti essenziali che integrano la fattispecie, ivi comprese le condizioni obiettive, non facenti parte del precetto, con la conseguenza che il reato stesso si consuma allorquando tutti i predetti elementi vengono realizzati e nel luogo e momento in cui si realizza l’ultima componente (Sez. 1, n. 888 del 11/05/1973, Tintinero, Rv. 124698).

Quanto poi ai profili dell’amnistia e dell’indulto (art. 79, comma terzo, Cost., che si sovrappone agli artt. 151, comma terzo e 174, comma terzo, cod. pen.), l’unitaria considerazione degli istituti e il fatto che, come puntualmente rilevato in dottrina, anche l’amnistia, che pure costituisce causa di estinzione del reato, ha riguardo non all’aspetto offensivo di quest’ultimo, ma alla sua punibilità, giustificano la conclusione in base alla quale assume valore determinante il momento del verificarsi della condizione obiettiva di punibilità (e anche questa conclusione è coerente con i risultati raggiunti dalla giurisprudenza di questa Corte: v. Sez. 5, n. 40477 del 18/05/2018, Alampi, Rv. 273800; Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017, Santoro, Rv. 269388; Sez. 5, n. 7814 del 22/03/1999, Di Maio, Rv. 213867).

Alla luce di tali principi, anche ai fini della revoca dell’indulto ai sensi dell’art. 1, comma, 3 I. 31 luglio 2006 n. 241 deve aversi riguardo alla data della sentenza dichiarativa di fallimento per valutare la data in cui assume rilievo il reato di bancarotta fraudolenta (di cui all’art. 216 comma 1 n. 1 r.d. 16 marzo 1942 n. 267) quale “delitto non colposo per il quale (il soggetto) riporti condanna a pena detentiva non inferiore ad anni due”, secondo il disposto del citato art. 1, comma 3, l. 31 luglio 2006.

2. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento a favore della cassa delle ammende di una sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in euro 3000,00, ai sensi dell’ art. 616 cod. proc. pen.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso, il 26/11/2021.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.