REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere
Dott. CIRILLO Francesco Maria – Rel. Consigliere
Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5857/2021 R.G. proposto da:
F.LLI (OMISSIS) ROMA S.R.L., elettivamente domiciliata in ROMA , VIA (omissis) (omissis) 8, presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che la rappresenta e difende;
-ricorrente-
contro
AXA ASSICURAZIONI SPA, rappresentata e difesa dall’avv. (omissis) (omissis);
-controricorrente–
e
(omissis) (omissis),
-intimato-
avverso la SENTENZA del TRIBUNALE di ROMA n. 10194/2020 depositata il 13/07/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/03/2024 dal Consigliere dr. FRANCESCO MARIA CIRILLO.
FATTI DI CAUSA
1. La Fratelli (omissis) Roma s.r.l. convenne in giudizio, davanti al Giudice di pace di Roma, l’AXA Assicurazioni s.p.a. e (omissis) (omissis), chiedendo che fossero condannati al risarcimento dei danni subiti dall’autovettura di (omissis) (omissis) a causa di un tamponamento a catena.
Espose, a sostegno della domanda, che la vettura del (omissis) era stata tamponata, da ferma, dalla vettura di proprietà di (omissis) (omissis) la quale, a sua volta, era stata tamponata, da ferma, dalla vettura del (omissis).
Aggiunse che il credito era stato ad essa ceduto dal danneggiato.
Si costituì in giudizio la società assicuratrice, chiedendo il rigetto della domanda.
Il Giudice di pace rigettò la domanda e condannò la società attrice al pagamento delle spese di lite.
2. La pronuncia è stata impugnata dalla parte soccombente e il Tribunale di Roma, con sentenza del 13 luglio 2020, ha rigettato l’appello e ha condannato l’appellante alla rifusione delle ulteriori spese del grado.
Ha osservato il Tribunale che la società appellante aveva esercitato l’azione diretta, agendo contro la società di assicurazione del (omissis).
Ciò premesso, il Tribunale ha rilevato che la società di assicurazioni aveva contestato, costituendosi nel giudizio di primo grado, che non vi fosse la prova del fatto che il sinistro si fosse verificato con le modalità indicate nell’atto di citazione.
A fronte di tale «puntuale contestazione, era onere della società odierna appellante assolvere all’onere probatorio che su di essa incombeva»; questa, invece, si era limitata a produrre il modello CAI «sottoscritto da entrambi i conducenti» che, in difetto di riscontro tramite ulteriori elementi di prova, è stato ritenuto dal Tribunale insufficiente a fornire la prova del fatto dedotto a sostegno della domanda.
Ciò sulla base dell’affermazione secondo cui il modello CAI non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti del confitente, dovendo essere la dichiarazione ivi contenuta liberamente valutata dal giudice, come confessione proveniente da uno solo dei litisconsorti necessari (art. 2733, terzo comma, cod. civ.).
A tale conclusione il Tribunale ha aggiunto che nessuna contestazione era stata introdotta nell’atto di appello in relazione a quella parte della sentenza di primo grado nella quale il Giudice di pace aveva affermato che la richiesta risarcitoria era fondata sulla denuncia di danni generici e privi di riscontro oggettivo.
3. Contro la sentenza del Tribunale di Roma ricorre la Fratelli (omissis) Roma s.r.l. con atto affidato a due motivi.
Resiste l’AXA Assicurazioni s.p.a. con controricorso.
La società ricorrente ha depositato un foglio di memoria, ribadendo le già rassegnate conclusioni.
(omissis) (omissis) non ha svolto attività difensiva in questa sede.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 143 e 148 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., oltre a omessa ed erronea valutazione delle prove.
La società ricorrente rileva che il Tribunale non avrebbe attribuito il giusto valore al modulo C.A.I. sottoscritto dal (omissis) e dalla (omissis) e non avrebbe considerato che i danni come risultanti dallo stesso erano compatibili con quelli accertati dalla fattura prodotta, sulla base della quale il giudice di merito ben avrebbe potuto ammettere una consulenza tecnica d’ufficio.
Richiamata, a supporto, una serie di pronunce di questa Corte in ordine alla valenza probatoria del modello suindicato, la parte ricorrente osserva che la sentenza impugnata avrebbe, in sostanza, negato tale valenza, ponendo a carico del danneggiato (in questo caso il creditore cessionario) l’onere di provare che i fatti si fossero davvero svolti come indicati nel modello medesimo.
1.1. Il motivo non è fondato, anche se la motivazione della sentenza impugnata deve essere parzialmente corretta.
La disgressione che la società ricorrente svolge ha un profilo di fondatezza in relazione a quel passaggio della motivazione nel quale il Tribunale ha affermato che, a seguito delle contestazioni sulle modalità del sinistro svolte dalla società di assicurazioni, doveva essere la parte attrice (cioè il danneggiato, sostituito nella specie dal creditore cessionario) a provare che i fatti si fossero svolti come indicato in citazione.
Quest’affermazione è errata in diritto, perché l’art. 143, comma 2, del d.lgs. n. 209 del 2005 è chiaro nell’affermare che la C.A.I. sottoscritta da entrambi i conducenti determina una presunzione, salvo prova contraria da parte dell’impresa di assicurazione, che il sinistro si sia svolto con le modalità e le conseguenze indicate su quel modulo.
Non si tratta, in proposito, di una novità legislativa, dal momento che la disposizione ora richiamata costituisce la riproposizione dell’art. 5, secondo comma, del decreto-legge 23 dicembre 1976, n. 857, convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 1977, n. 39.
La presunzione è finalizzata, chiaramente, ad un intento deflattivo del contenzioso, avendo lo scopo di garantire entrambi i conducenti del fatto che il riconoscimento concorde delle colpe non venga messo in discussione dagli assicuratori ribaltando l’onere della prova a carico del danneggiato.
Ed è evidente che la previsione di una presunzione fino a prova contraria non esclude che la società di assicurazioni possa superarla fornendo, appunto, tale prova; ma significa anche che l’onere della stessa ricade a carico dell’assicuratore e non del danneggiato, come invece l’impugnata sentenza ha affermato nel caso oggi in esame (v. in argomento, tra le altre, l’ordinanza 6 dicembre 2017, n. 29146).
A sostegno della propria decisione, il Tribunale ha richiamato il principio di diritto – che risale, com’è noto, alla sentenza 5 maggio 2006, n. 10311, delle Sezioni Unite di questa Corte – secondo cui la dichiarazione confessoria contenuta nel modulo di constatazione amichevole del sinistro (cosiddetto C.I.D.), resa dal responsabile del danno proprietario del veicolo assicurato e litisconsorte necessario, non ha valore di piena prova nemmeno nei confronti del solo confitente, ma deve essere liberamente apprezzata dal giudice, dovendo trovare applicazione la norma di cui all’art. 2733, terzo comma, cod. civ., secondo la quale, in caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da alcuni soltanto dei litisconsorti è, per l’appunto, liberamente apprezzata dal giudice.
La citata pronuncia delle Sezioni Unite, più volte ribadita in seguito e alla quale la decisione odierna intende dare ulteriore continuità, fu determinata, in realtà, dalla necessità di risolvere una serie di problemi diversi da quello oggi in esame; tra cui il fatto che, all’epoca, una parte della giurisprudenza di merito era orientata – in presenza di una prova contraria resa dalla società assicuratrice rispetto a quanto risultava dal modello CID – a condannare al risarcimento il solo danneggiante e non l’assicuratore.
Ciò spiega la particolare attenzione dimostrata dalle Sezioni Unite, in più passaggi della motivazione, all’unicità del rapporto dedotto in giudizio e alla necessità di un accertamento il quale «non può che essere unico e uniforme per tutti e tre i soggetti coinvolti nel processo, non potendosi nel medesimo giudizio affermare, con riferimento alla domanda proposta dal danneggiato nei confronti dell’assicuratore, che il rapporto assicurativo e la responsabilità dell’assicurato esistano nel rapporto tra due delle parti e non per l’altra, e ciò non soltanto in base al principio di non contraddizione, ma soprattutto in base alla struttura dell’azione così come disciplinata dalla L. n. 990 del 1969, artt. 18 e 23, se si ha presente che l’obbligazione dell’assicuratore di pagare direttamente l’indennità al danneggiato, non nasce se non esiste il rapporto assicurativo e se non è accertata la responsabilità dell’assicurato».
L’affermazione sul valore confessorio della C.A.I. come atto liberamente apprezzabile dal giudice in quanto confessione proveniente da un litisconsorte necessario si iscrive, quindi, nel contesto particolare di quella decisione, intesa a chiarire l’impossibilità di un esito decisorio diverso per la domanda rivolta contro l’assicuratore e contro il danneggiante. Ne consegue che il principio del libero apprezzamento non è in contrasto con le suindicate norme di legge che conferiscono al modello C.A.I., firmato da entrambi i conducenti, il valore di una presunzione iuris tantum che l’assicuratore è ammesso a superare.
La successiva giurisprudenza di questa Corte, d’altra parte, in più occasioni ha anche stabilito che ogni valutazione sulla portata confessoria del modulo di constatazione amichevole d’incidente deve ritenersi preclusa dall’esistenza di un’accertata incompatibilità oggettiva tra il fatto come descritto in tale documento e le conseguenze del sinistro come accertate in giudizio (v. le sentenze 25 giugno 2013, n. 15881, e 27 marzo 2019, n. 8451, nonché l’ordinanza 25 gennaio 2024, n. 2438).
1.2. Il ragionamento svolto fin qui era necessario sia per correggere l’errata affermazione in diritto contenuta nella sentenza impugnata sia per armonizzare l’interpretazione delle norme di legge sul valore del C.A.I. con il principio del litisconsorzio necessario enunciato dalle Sezioni Unite, con la citata sentenza, a proposito della responsabilità derivante da circolazione stradale.
Nel caso specifico, però, la parziale fondatezza della censura in diritto proposta dall’odierna parte ricorrente non giova all’accoglimento del ricorso, il quale va ugualmente respinto, per le ragioni che si vanno adesso a indicare.
Costituisce un dato pacifico in causa – chiarito dall’impugnata sentenza e riconosciuto anche dalla parte ricorrente – che l’incidente di cui si discute ha visto coinvolti tre veicoli, mentre il modello C.A.I. è stato sottoscritto solo da due di loro, ossia il (omissis), autore del primo tamponamento, e la (omissis) (p. 7 del ricorso), la vettura della quale aveva, a sua volta, tamponato la terza auto coinvolta, cioè quella condotta dal (omissis).
L’odierna ricorrente è la cessionaria del credito di quest’ultimo, cioè il secondo tamponato, che sarebbe stato urtato dalla vettura della (omissis) a seguito dell’urto di questa con l’auto (omissis).
Ne consegue che l’odierna ricorrente, in effetti, non può far valere, nei confronti dell’assicuratore, alcuna C.A.I., posto che il creditore cedente ((omissis)) non ha firmato alcunché (o, almeno, nessuno ha sostenuto il contrario).
Ed è evidente che questo semplice rilievo fattuale toglie ogni fondamento al motivo di ricorso qui in esame, stante l’irrilevanza della complessa questione giuridica sulla quale ci si è soffermati.
2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ., sostenendo che il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto non contestata l’affermazione del Giudice di pace secondo cui i danni erano generici.
2.1. Il motivo rimane assorbito dal rigetto del primo, perché, una volta escluso l’an del diritto al risarcimento, non avrebbe alcun senso occuparsi della contestazione sull’entità dei danni (generica o specifica).
Né può farsi a meno di rilevare, ad abundantiam, che il motivo è del tutto privo di consistenza e inammissibile, in quanto non coglie la ratio decidendi della sentenza; il Tribunale non ha affatto stabilito che c’era un capo autonomo della sentenza di primo grado passato in giudicato, ma ha solo detto che la contestazione sull’entità dei danni era generica. E rispetto a questa decisione il motivo è inconferente, perché non dimostra affatto che quella contestazione ci fu.
3. Così corretta la motivazione dell’impugnata sentenza, il ricorso è rigettato. A tale esito segue la condanna della società ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del d.m. 10 marzo 2014, n. 55.
Sussistono inoltre le condizioni di cui all’art. 13, comma 1- quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte della società ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 1.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Suprema Corte di Cassazione in data 21 marzo 2024.
Depositato in Cancelleria il 3 giugno 2024.