Condannato il notaio per peculato per non aver versato, ovvero versato in ritardo, le somme corrisposte dai clienti per il pagamento della imposta di registro (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 31 gennaio 2024, n. 4247).

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SESTA SEZIONE PENALE

composta da:

Gaetano De Amicis -Presidente-

Orlando Villoni -Consigliere-

Pietro Silvestri -Relatore-

Ersilia Calvanese -Consigliere-

Paolo Di Geronimo -Consigliere-

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), nato a (OMISSIS) il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Venezia il 10/11/2022;

visti gli atti ed esaminato il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere, Pietro Silvestri;

udito il Sostituto Procuratore Generale, dott.ssa Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile;

udito l’avv. (OMISSIS) (OMISSIS) (OMISSIS), difensore dell’imputato, che ha concluso insistendo per l’accoglimento dei motivi di ricorso;

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Venezia ha sostanzialmente confermato la sentenza con cui (OMISSIS) (OMISSIS) è stato condannato per il reato di peculato.

All’imputato è contestato, nella sua qualità di notaio, di essersi appropriato in più occasioni, dal dicembre del 2009 al dicembre del 2010, di una serie di somme versategli a titolo di imposta di registro e non versate ovvero versate cori un ritardo superiore al termine di trenta giorni previsti dalla legge.

2. Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato articolando quattro motivi.

2.1. Con il primo si deduce violazione di legge; il tema attiene alla qualifica soggettiva pubblicistica di pubblico ufficiale, che non sarebbe sussistente “al momento del pagamento della imposta di registro”; un atto, si aggiunge, che può essere compiuto anche attraverso un delegato.

2.2. Con il secondo motivo si lamenta vizio di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza del dolo.

Nel caso di specie sarebbe stato dimostrato che:

a) l’imputato con grandi sacrifici avrebbe versato, seppur in ritardo, la gran parte delle somme;

b) le somme riscosse erano state utilizzate per pagare le imposte relative ad altre pratiche che avevano scadenze più urgenti e relative ad atti riconducibili a clienti insolventi. Dunque non vi sarebbe stata una volontà appropriativa.

2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al giudizio di responsabilità penale. Si assume che il mero ritardo nel versamento non potrebbe equipararsi alla condotta appropriativa e che non sarebbe stata adeguatamente valutata la condotta, sia pure tardiva, di pagamento della imposta.

2.4. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, negate in ragione della esistenza di precedenti condanne per fatti omogenei, e alla dosimetria della pena.

Non sarebbe stato considerato che Laterza ha 85 anni, avrebbe ripagato gran parte del debito verso l’erario, si sarebbe trovato nella impossibilità di adempiere per cause a lui non imputabili.

Sotto altro profilo la Corte non avrebbe indicato i parametri oggettivi alla cui stregua sono stati inflitti gli aumenti per continuazione.

3. É stata prodotta una memoria nell’interesse del ricorrente con la quale si riprendono e si sviluppano ulteriormente gli argomenti posti a fondamento dei motivi di ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato nei limiti di cui si dirà.

2. È inammissibile il primo motivo di ricorso non solo perché non specificamente dedotto in appello ma anche perché manifestamente infondato.

2.1. Con la riformulazione degli artt. 357 e 358 cod. pen. ad opera della legge 26 aprile 1990, n. 86, è stato definitivamente positivizzato il superamento della concezione soggettiva delle nozioni di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, che privilegiava il rapporto di dipendenza dallo Stato o da altro ente pubblico, con l’adozione di una prospettiva funzionale-oggettiva, secondo il criterio della disciplina pubblicistica dell’attività svolta e del suo contenuto.

Ciò che è necessario accertare, ai fini dell’assunzione della qualifica di pubblico ufficiale, è l’esercizio di una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Tale ultima funzione è stata specificamente definita al secondo comma dell’art. 357 cod. pen., introdotto dalla legge 7 febbraio 1992, n. 181, attraverso specifici indici di carattere oggettivo che consentono di delimitare la funzione pubblica, verso l’esterno, da quella privata e, verso l’interno, dalla nozione di pubblico servizio.

Si definisce, infatti, pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico (Sez. U, n. 10086 del 13/07/1998, Citaristi, definisce tali quelle attinenti all’organizzazione generale dello Stato) e da atti autoritativi e caratterizzata, nell’oggetto, dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o, nelle modalità di esercizio, dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi (Sez. U, n. 7958 del 27/03/1992, Delogu).

Come emerge dall’impiego nel testo della norma della disgiuntiva “o”, in luogo della congiunzione “e”, i suddetti criteri normativi di identificazione della pubblica funzione non sono tra loro cumulativi, ma alternativi.

É stato, inoltre, precisato che nel concetto di poteri “autoritativi” rientrano non soltanto i poteri coercitivi, ma tutte quelle attività che sono esplicazione di un potere pubblico discrezionale nei confronti di un soggetto che viene a trovarsi così su un piano non paritetico – di diritto privato – rispetto all’autorità che tale potere esercita; rientrano, invece, nel concetto di “poteri certificativi” tutte quelle attività di documentazione cui l’ordinamento assegna efficacia probatoria, quale che ne sia il grado (Sez. U, Delogu).

La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, attribuito rilevanza anche all’esercizio di fatto della pubblica funzione, purchè questo non sia usurpato, ma accompagnato dall’acquiescenza, dalla tolleranza o dal consenso, anche tacito, dell’amministrazione (Sez. 6, n. 19217 del 13/01/2017, Como, Rv. 270151).

Non occorre, dunque, un’investitura formale se vi è, comunque, la prova che al soggetto sono state affidate effettivamente delle pubbliche funzioni (In senso conforme, si veda anche Sez. 6, n. 34086 del 26/07/2013, Bessone, Rv. 257035 con riferimento all’assunzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio del soggetto che, di fatto, svolge delle attività diverse da quelle inerenti alle mansioni istituzionalmente affidategli).

L’attività dell’incaricato di pubblico servizio, secondo la definizione contenuta al successivo art. 358 cod. pen., è ugualmente disciplinata da norme di diritto pubblico, ma presenta due requisiti negativi in quanto manca dei poteri autoritativi e certificativi propri della pubblica funzione, con la quale è in rapporto di accessorietà e complementarietà, e non ricomprende le attività che si risolvono nello svolgimento di mansioni di ordine o in prestazioni d’opera meramente materiale.

Si tratta, dunque, di un un’attività di carattere intellettivo, caratterizzata, quanto al contenuto, dallo svolgimento di compiti di rango intermedio tra le pubbliche funzioni e le mansioni di ordine o materiale.

Quale diretta conseguenza del criterio oggettivo-funzionale adottato dal legislatore, la qualifica pubblicistica dell’attività prescinde dalla natura dell’ente in cui è inserito il soggetto e dalla natura pubblica dell’impiego.

La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, da tempo affermato che anche i soggetti inseriti nella struttura organizzativa di una società per azioni possono essere qualificati come pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, quando l’attività della società sia disciplinata da norme di diritto pubblico e persegua delle finalità pubbliche sia pure con strumenti privatistici (da ultimo, Sez. 6, n. 19484 del 23/01/2018, Bellinazzo, Rv. 273781).

Rileva l’attività dell’ente e, posto che questa abbia caratteri pubblicistici, quale sia in concreto l’attività compiuta dal soggetto.

2.2. In tale contesto è stato già spiegato dalla Corte di cassazione come la qualità di pubblico ufficiale del notaio non valga a conferire natura pubblica a qualsiasi somma di cui abbia la disponibilità in ragione della sua professione, potendo egli svolgere anche attività di tipo privatistico. Secondo la legge notarile del 1913, infatti, «i notari sono ufficiali pubblici istituiti per ricevere gli atti tra vivi e di ultima volontà [ed] attribuire loro pubblica fede», oltre che per svolgere le altre funzioni tipicamente pubblicistiche previste dall’art. 1 di quel testo normativo; ma il successivo art. 2, secondo comma, riconosce come, tra le attività consentite a tale professionista, ve ne siano anche altre, alle quali non necessariamente va attribuita natura pubblica.

È tuttavia, in tema di peculato, il possesso qualificato dalla ragione dell’ufficio o del servizio non è solo quello che rientra nella competenza funzionale specifica del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma anche quello che si basa su un rapporto che consenta al soggetto comunque di inserirsi nel maneggio o nella disponibilità della cosa o del denaro altrui, rinvenendo nella pubblica funzione o nel servizio anche la sola occasione per un tale comportamento (Sez. 6, n. 33254 del 19/05/2016, Caruso, Rv. 267525; Sez. 6, n. 18015 del 24/02/2015, Ambrosio, Rv. 263278; Sez. 6, n. 12368 del 17/10/2012, dep. 2013, Medugno, Rv. 255998).

Dunque, è stato testualmente evidenziato, rispetto alle somme destinate agli adempimenti fiscali collegati agli atti da lui stipulati, non vi può esser dubbio che si tratti di cose da lui possedute per ragione dell’ufficio: assume rilievo al riguardo l’art. 28, terzo comma, della legge notarile, che dà facoltà al notaio finanche di «ricusare il suo ministero, se le parti non depositino presso di lui l’importo delle tasse» e degli altri oneri collegati alla stipulazione dell’atto.

Del nesso funzionale esistente tra la disponibilità di tali somme da parte del notaio e l’esercizio della sua peculiare funzione rogante, si rinviene ulteriore conferma nelle specifiche discipline regolatrici dei tributi cui si riferiscono le condotte addebitate all’imputato.

Il d.P.R. n. 131 del 26 aprile 1986, contenente il Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro, annovera il notaio tra i soggetti obbligati a richiedere la registrazione dell’atto ed a provvedere al pagamento dell’imposta (artt. 10, comma 1, lett. b, e 57, comma 1).

In materia di imposta sostitutiva sulle plusvalenze da cessioni a titolo oneroso di immobili, cui si riferisce il capo 3) dell’imputazione, la legge 23 dicembre 2005, n. 266 (articolo 1, comma 496), fa carico al notaio di provvedere all’applicazione ed al versamento dell’imposta, ricevendo la provvista dal cedente.

Non diversamente, il Testo unico in materia di imposte ipotecaria e catastale, di cui al d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 347, all’art. 11, indica, tra i soggetti obbligati al pagamento, i pubblici ufficiali obbligati al pagamento dell’imposta di registro, relativamente agli atti ai quali si riferisce la formalità.

L’immediato nesso funzionale tra la disponibilità di tal genere di somme e la specifica attività notarile rogante finisce, allora, per rendere sostanzialmente irrilevante, ai fini della configurabilità del peculato, la precisa determinazione della qualifica del notaio rispetto ad esse, se cioè egli debba considerarsi agente contabile, sostituto d’imposta, obbligato o co-obbligato al pagamento del tributo (così, SeZ. 6, n. 16786 del 02/02/2021, Conte, Rv. 281335).

Dubbi dunque non possono sussistere sulla qualifica soggettiva del ricorrente a cui si contesta di essersi appropriato di somme di cui aveva il possesso in ragione del suo essere notaio e quindi del suo ufficio; diversamente dagli assunti difensivi, è irrilevante la circostanza che il pagamento materiale della imposta possa essere compiuto da un incaricato, atteso che, ai fini della configurabilità del peculato, rileva, lo si ripete, che il pubblico ufficiale, cioè nel caso di specie il notaio, si appropri di somme di cui aveva la disponibilità in relazione alla sua attività.

3. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, che possono essere valutati congiuntamente, sono parzialmente fondati.

Si è già detto di come l’imputazione si strutturi su un duplice livello: all’imputato si contesta, da una parte, di non aver versato le somme ricevute e destinate al pagamento della imposta di registro, e, dall’altra, una serie di fatti di peculato basati sul ritardato pagamento.

3.1. Quanto ai fatti relativi all’omesso versamento delle somme ricevute, i motivi di ricorso sono inammissibili, non avendo l’imputato nemmeno contestato la condotta omissiva ed essendosi limitato a fornire generiche giustificazioni ampiamente valutate dalla Corte di appello.

La Corte di cassazione ha costantemente affermato che la funzione tipica dell’impugnazione è quella della critica argomentata avverso il provvedimento cui si riferisce.

Tale critica argomentata si esplica attraverso la presentazione di motivi che, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 cod. proc. pen.), devono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta.

Contenuto essenziale dell’atto di impugnazione è infatti il confronto puntuale (cioè con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta.

Ne consegue che se il motivo di ricorso si limita ad affermazioni generiche, esso non è conforme alla funzione per la quale è previsto e ammesso, cioè la critica argomentata al provvedimento, posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento formalmente “attaccato”, lungi dall’essere destinatario di specifica critica argomentata, è di fatto del tutto ignorato.

3.2. A diverse conclusioni deve giungersi quanto alle condotte relative al ritardato pagamento.

La Corte di cassazione ha già spiegato come nelle ipotesi, come quella in esame, in cui il reato è legato allo spirare di un termine, la responsabilità consegue solo quando sia comunque raggiunga la prova della intervenuta interversione del titolo del possesso, cioè che il pubblico ufficiale abbia agito “uti dominus“.

L’individuazione del momento in cui si realizza l’interversione del titolo del possesso, e dunque la condotta appropriativa, non coincide automaticamente con lo spirare del termine, ma va accertata caso per caso sulla base dell’attenta considerazione delle circostanze di fatto, evitando semplificazioni probatorie che trasformerebbero la fattispecie di peculato, gravemente punita, in un reato “formale”.

Occorre, cioè, che la sottrazione della “res” alla disponibilità dell’ente pubblico si sia pur sempre protratta per un lasso di tempo ragionevolmente apprezzabile e comunque tale da denotare inequivocabilmente l’atteggiamento “appropriativo” dell’agente (così testualmente, Sez. 6, n. 38339 del 29/09/2022, De Marco, Rv. 283940; cfr., sul tema Sez. 6, n. 16786 del 02/02/2021, Conte, Rv. 281335, in cui si è affermato che l’appropriazione del denaro, riscosso dal notaio a titolo di imposte e non riversato all’erario, si realizza non già per effetto del mero ritardo nell’adempimento, bensì allorquando si determina la certa interversione del titolo del possesso, che si realizza allorquando il pubblico agente compia un atto di dominio sulla cosa, con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria, condotta che non necessariamente può essere ritenuta insita nella mancata osservanza del termine di adempimento).

Si tratta di questioni in cui il profilo giuridico si accompagna ad un profilo probatorio, che deve essere compiuto senza automatismi, caso per caso, in concreto, sulla base di tutte le circostanze portate alla cognizione del Giudice.

Nel caso di specie, rispetto ad una sentenza di primo grado che ha fatto discendere il giudizio di responsabilità dal mero decorso del termine di trenta giorni per il versamento, la Corte di appello, investita di un motivo sufficientemente specifico sulla prova della condotta appropriativa, si è limitata ad affermare che al momento dell’adempimento il termine era abbondantemente scaduto e che non sarebbero state fornite giustificazioni dei pagamenti, che, a dire della Corte, sarebbero stati compiuti solo dopo i rilievi disciplinari.

In realtà, a fronte della contestazione di molteplici e reiterati fatti di peculato consistenti nel ritardato pagamento, ciò che tuttavia non è chiaro è quando e come, rispetto ai singoli fatti, il pagamento fu compiuto, quando, rispetto al pagamento, le somme furono corrisposte dai clienti dell’imputato, quale fu in concreto il comportamento tenuto.

Una motivazione onnicomprensiva e collettiva strutturata in modo non analitico. Ne consegue che la sentenza deve essere annullata rispetto ai fatti di ritardato pagamento; la Corte di appello applicherà i principi indicati e verificherà se e in che limiti sia stata raggiunta la prova della condotta appropriativa e, quindi, del peculato, provvedendo, se del caso, alla rideterminazione della pena.

4. Il quarto motivo di ricorso è assorbito.

P. Q. M.

Dichiara inammissibile il ricorso limitatamente alle condotte relative alle somme di denaro non versate e dichiara irrevocabile per esse l’affermazione di responsabilità, rinviando ad altra Sezione della Corte di appello di Venezia per la rideterminazione della pena.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alle condotte relative alle somme versate in ritardo e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della predetta Corte di appello.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2023.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.