Detenuto danneggia una cella ove era ristretto. Il principio del ne bis in idem non opera in caso di procedimento penale e procedimento disciplinare (Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 12 marzo 2024, n. 10399).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SECONDA SEZIONE PENALE

Composta da:

Sergio Beltrani                  – Presidente –

Piero Messini D’Agostini  – Consigliere –

Maria Daniela Borsellino – Consigliere –

Ignazio Pardo                    – Relatore –

Francesco Florit                – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(omissis) (omissis) (omissis) (omissis) nato il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza del 28/02/2023 della CORTE di APPELLO di MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. IGNAZIO PARDO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. GIULIO ROMANO, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Milano, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la pronuncia del Tribunale della stessa città in data 12/11/2021, che aveva condannato (omissis) (omissis) (omissis) (omissis) alle pene di legge perché ritenuto colpevole del delitto di danneggiamento aggravato di strutture della cella ove risultava detenuto.

2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, deducendo, con unico motivo qui riassunto ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen., violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. con riferimento alla violazione dell’art. 649 cod. proc. pen. sul diritto a non essere perseguiti due volte per lo stesso fatto, nell’interpretazione della norma convenzionalmente adeguata in riferimento alla garanzia di cui all’art. 4, Prot. Addizionale n. 7 alla Convenzione EDU; esponeva in proposito che sussistevano tutti i presupposti per ritenere che il fatto non potesse essere giudicato anche in sede penale, per effetto dell’intervenuta irrogazione, in sede disciplinare, di una sanzione amministrativa ex art. 39 ord. Pen..

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso, proposto per motivi in parte non fondati, in parte privi della necessaria specificità, deve, nel complesso, essere rigettato.

1. Il divieto di bis in idem (dal brocardo Bis de eadem re ne sit actio) è sancito a livello convenzionale dall’art. 4, § 1, del Protocollo addizionale alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in poi, Convenzione EDU), a norma del quale «nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato».

1.1. La predetta disposizione ha costituito oggetto di plurimi interventi della Corte EDU, ed in particolare, di una decisione della Grande Chambre (sentenza 15 novembre 2016, caso A. e B. c. Norvegia), che ha rigettato il ricorso di due contribuenti i quali, per la medesima evasione fiscale, avevano riportato condanna in sede penale ed in sede amministrativa (ad una sanzione tributaria), valorizzando, per escludere che fosse stato violato il divieto di bis in idem:

– l’agevole prevedibilità, secondo la normativa interna, del fatto che, in conseguenza dell’accertata evasione fiscale, potessero essere instaurati in danno dei ricorrenti due distinti procedimenti, finalizzati l’uno all’irrogazione della sanzione penale, l’altro di quella amministrativa (tributaria);

– la sostanziale contestualità dei due distinti procedimenti;

– l’intervenuto richiamo, nell’ambito del procedimento penale, dei fatti accertati nel procedimento amministrativo;

– l’intervenuta determinazione della sanzione penale irrogata in concreto, tenendo conto anche di quella sanzione amministrativa (tributaria) già irrogata ai ricorrenti.

Per tali ragioni, la Corte EDU ha affermato che, pur essendo stati formalmente celebrati in danno dei ricorrenti, per lo stesso fatto, due distinti procedimenti, che avevano conclusivamente comportato l’irrogazione, in danno dei predetti, di due distinte sanzioni, in concreto, i predetti procedimenti avevano costituito distinti segmenti di un medesimo, complesso, unitario iter giudiziario.

1.1.1. La citata decisione della Grande Chambre della Corte EDU ha richiamato, per determinare l’identità del fatto contestato (che costituisce uno dei presupposti di operatività del divieto de quo), la sua precedente sentenza del 10/02/2009, caso Serguei Zolotoukhine c. Russia, osservando che, «a partire da tale sentenza, è chiaro che la questione di stabilire se entrambi i procedimenti riguardassero lo stesso reato deve essere analizzata sulla base dei soli fatti (si vedano in particolare i paragrafi 82 e 84 della sentenza).

I due procedimenti verteranno sullo stesso reato se traggono origine da «fatti identici o fatti che sono sostanzialmente gli stessi» (§ 82).

È dunque necessario che «l’esame riguardi quei fatti che costituiscono un insieme di circostanze fattuali concrete che implicano la stessa persona e indissolubilmente legate tra loro dal punto di vista temporale e dello spazio» (§ 84)».

La sentenza emessa della Grande Chambre della Corte EDU nel caso A. e B. c. Norvegia ha ribadito anche la necessità di far riferimento ai cc. dd. “criteri Engel” (così definiti in riferimento alla sentenza che per prima li enunciò: Corte EDU, 8 giugno 1976, caso Engel c. Paesi Bassi) per qualificare la natura “sostanzialmente penale” delle sanzioni irrogabili per uno stesso fatto (che costituisce altro presupposto di operatività del divieto de quo), ed evitare che gli ordinamenti nazionali, per eludere il predetto divieto, con una sorta di “frode delle etichette” qualifichino formalmente come amministrative sanzioni sostanzialmente penali.

I predetti criteri valorizzano, ai fini della qualificazione della natura sostanziale di una sanzione:

– la qualificazione giuridica dell’infrazione nel diritto interno;

– la natura dell’infrazione o dell’illecito;

– il grado di severità della sanzione applicabile.

Trattasi di criteri validi anche alternativamente, che non devono quindi necessariamente concorrere.

La Grande Chambre ha, invece, ritenuto non più necessaria l’interruzione del procedimento ancora pendente all’atto della definitività di quello concomitante avente ad oggetto l’idem factum, fissando una regola nuova, secondo la quale la violazione del divieto di bis in idem sancito dall’art. 4, Prot. 7, Conv. EDU è esclusa, ed i distinti procedimenti finalizzati all’irrogazione di sanzioni penali ed amministrative possono essere portati entrambi a conclusione, quando tra essi sussista un « nesso materiale e temporale sufficientemente stretto: «in altre parole, deve essere dimostrato che questi ultimi si combinavano in maniera da essere integrati in un tutto coerente.

Questo significa non solo che gli scopi perseguiti e i mezzi utilizzati per raggiungerli devono essere in sostanza complementari e presentare un nesso temporale, ma anche che le eventuali conseguenze derivanti da una tale organizzazione del trattamento giuridico del comportamento in questione devono essere proporzionate e prevedibili per la persona sottoposta alla giustizia» (§ 130).

Secondo la Grande Chambre, in particolare, esiste un nesso sufficientemente stretto dal punto di vista materiale tra due (o più) procedimenti aventi ad oggetto lo stesso fatto (§ 132):

– se i diversi procedimenti perseguono scopi complementari e riguardano in tal modo, non soltanto in abstracto ma anche in concreto, gli aspetti diversi dell’atto pregiudizievole per la collettività interessata;

– se il carattere misto dei procedimenti in questione sia una conseguenza prevedibile, sia in diritto che in pratica, dello stesso comportamento sanzionato;

– se i procedimenti in questione siano stati condotti in maniera da evitare per quanto possibile qualsiasi ripetizione nella raccolta e nella valutazione degli elementi di prova, soprattutto grazie ad una interazione adeguata tra le diverse autorità competenti, facendo apparire che l’accertamento dei fatti compiuto in uno dei procedimenti è stato ripreso nell’altro;

– se la sanzione imposta all’esito del procedimento conclusosi per primo sia stata considerata nell’ambito del procedimento che si è concluso per ultimo, in modo da non finire con il far gravare sull’interessato un onere eccessivo, rischio, quest’ultimo, che è meno suscettibile di presentarsi se esiste un meccanismo compensatorio concepito per assicurare che l’entità globale di tutte le pene pronunciate sia proporzionata.

Sotto il profilo strettamente temporale, tale nesso è stato ritenuto configurabile quando tra i due procedimenti sussista anche un collegamento di natura cronologica; ciò non rende, peraltro, necessario, che i due procedimenti siano condotti simultaneamente dall’inizio alla fine: «Lo Stato deve avere la facoltà di scegliere che i due procedimenti siano condotti progressivamente se tale procedura è giustificata da un intento di efficacia e di buona amministrazione della giustizia, persegue finalità sociali diverse e non causa un pregiudizio sproporzionato all’interessato.

Tuttavia, (…), deve esservi sempre un nesso temporale.

Tale nesso deve essere sufficientemente stretto affinché la persona sottoposta alla giustizia non si trovi in preda all’incertezza e a lungaggini, e affinché i procedimenti non si protraggano troppo nel tempo (si veda, come esempio di lacuna di questo tipo, Kapetanios e altri, (…), § 67), anche nell’ipotesi in cui il regime nazionale pertinente preveda un meccanismo «integrato» che comporti un elemento amministrativo e un elemento penale diversi.

Quanto più il nesso temporale è debole, tanto più lo Stato dovrà spiegare e giustificare le lungaggini di cui potrebbe essere responsabile nel condurre i procedimenti» (§ 134).

Si è, pertanto, concluso che la celebrazione di distinti procedimenti e la conclusiva irrogazione di più sanzioni aventi natura sostanzialmente penale non viola necessariamente il divieto di bis in idem convenzionale, sancito dall’art. 4, Protocollo 7, alla Convenzione EDU, in quanto la previsione normativa di un doppio binario sanzionatorio, sussistendo tra i procedimenti un nesso sostanziale e temporale “sufficientemente stretto”, nei termini illustrati, si traduce in un sistema integrato che permette di affrontare i diversi aspetti dell’illecito in maniera prevedibile e proporzionata nel quadro di una strategia unitaria.

1.2. Il divieto di bis in idem è sancito, nell’ordinamento interno, dall’art. 649 cod. proc. pen.; la disposizione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 117, comma 1, della Costituzione, in riferimento all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, nella parte in cui, secondo il diritto vivente, esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale (Corte cost., sentenza n. 200 del 31 maggio 2016).

2. Nel caso in esame, il Tribunale ha ritenuto che l’odierno procedimento penale per il reato di danneggiamento aggravato contestato non sia stato instaurato in violazione del divieto di bis in idem, pur essendo stato in precedenza l’imputato sottoposto a procedimento disciplinare per il medesimo fatto.

3. Secondo un orientamento ormai consolidato (così, per tutte, da ultimo, Sez. U, n. 8544 del 24/10/2019, dep. 2020, Genco, Rv. 278054 – 01), il giudice nazionale è vincolato soltanto dalle sentenze pilota e da quelle espressive di orientamenti consolidati della giurisprudenza europea, che, tuttavia, in relazione ai rapporti tra separati procedimenti finalizzati all’irrogazione di sanzioni penali e sanzioni disciplinari, non soltanto non ha mai affermato l’operatività del divieto di bis in idem sancito dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, ma anzi la ha espressamente esclusa (Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 21 febbraio 1984, caso Ozturk c. Germania, § 53; Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 10 febbraio 2009, caso Sergey Zolotukhin c. Russia, § 55).

3.1. Come dedotto dal Governo norvegese nel caso deciso dalla Corte EDU, Grande Chambre, sentenza 15 novembre 2016, caso A. e B. c. Norvegia (§ 67), dal Rapporto esplicativo sul Protocollo n. 7 risulta che il contenuto dell’art. 4 del Protocollo è stato concepito per riguardare i procedimenti penali intesi stricto sensu.

Tale rapporto indica, nel § 28, che non era sembrato necessario definire l’illecito come “penale” in quanto il contenuto dell’articolo 4, «che contiene già i termini “penalmente” e “procedimento penale”, rendeva questa precisazione inutile nel testo stesso dell’articolo»; nel successivo § 32, il Rapporto sottolinea che l’art. 4 del Protocollo n. 7 non vieta che si tengano procedimenti «di natura diversa (ad esempio un procedimento disciplinare, nel caso di un funzionario)».

La prospettazione, non contestata dalla Grande Chambre, pur improduttiva di conseguenze ai fini della decisione del caso A. e B (che riguardava sanzioni di natura non disciplinare, ma tributaria), appare di grande rilievo in relazione al caso in ora esame, riguardante proprio sanzioni disciplinari.

D’altro canto, in più occasioni la Grande Chambre della Corte EDU (21/02/1984, caso Ozturk c. Germania, § 53; 10/02/2009, caso Sergey Zolotukhin c. Russia, § 55), ai fini dell’attribuzione della natura sostanzialmente penale ad una sanzione formalmente non penale, ha evidenziato che la sanzione “sostanzialmente penale” si caratterizza per la circostanza di essere diretta alla generalità dei consociati («towards all citizens rather than towards a group possessing a special status»; la prima delle sentenze citate precisa, inoltre, «in the manner, for example, of disciplinary law»), di tal che incide negativamente sulla configurabilità del terzo dei criteri Engel (gravità delle conseguenze in cui l’incolpato può incorrere in conseguenza della commissione dello “stesso fatto” costituente oggetto di due distinti procedimenti) il fatto che la sanzione in disamina non risulti efficace nell’ambito della generalità dei consociati.

4. La giurisprudenza penale interna, con riguardo ad una fattispecie simile a quella oggetto del presente procedimento, questa Corte (Sez. 2, n. 9184 del 15/12/2016, dep. 2017, Pagano, Rv. 269237-01), ha inizialmente ritenuto che non sussiste la preclusione all’esercizio dell’azione penale ex art. 649 cod. proc. pen., quale conseguenza della già avvenuta irrogazione, per lo stesso fatto, di una sanzione formalmente amministrativa ma sostanzialmente “penale”, ai sensi dell’art. 4 del Protocollo 7 alla Convenzione EDU (come interpretato dalla sentenza della Corte EDU, Grande Chambre, 15/11/2016, A. e B. c. Norvegia), allorquando le due procedure risultino complementari, in quanto dirette al soddisfacimento di finalità sociali differenti, e determinino l’inflizione di una sanzione penale “integrata”, che sia prevedibile e, in concreto, complessivamente proporzionata al disvalore del fatto, ritenendo altresì la contiguità temporale dei distinti procedimenti cui l’interessato era stato separatamente sottoposto.

In applicazione del principio, è stata annullata con rinvio una sentenza che aveva dichiarato non doversi procedere per il reato di danneggiamento aggravato commesso da un detenuto su una finestra della casa circondariale in cui era ristretto, sulla base della considerazione che l’imputato aveva già subìto la sanzione disciplinare della esclusione dalle attività in comune per 5 giorni.

4.1. In seguito, più correttamente, e sempre con riguardo ad una fattispecie simile a quella oggetto del presente procedimento, è stata esclusa la possibilità di attribuire natura sostanzialmente penale alle sanzioni disciplinari, in quanto esse sono valide ed efficaci soltanto all’interno di una ristretta cerchia di consociati, e fino a che il soggetto sanzionato ne faccia parte (Sez. 2, n. 43434 del 20/06/2017, Reho, non mass.; per l’impossibilità di attribuire natura sostanzialmente penale a sanzioni disciplinari, cfr. anche Sez. 2, n. 5048 del 09/12/2020, dep. 2021, Russo, Rv. 280570 – 01, in fattispecie riguardante una sanzione amministrativa irrogata in ambito assicurativo – ISVASS – a seguito di procedimento disciplinare relativo agli stessi fatti oggetto di procedimento penale).

5. D’altro canto, anche la giurisprudenza civile interna è ferma nel ritenere che la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, il che comporta che ad essa non possa attribuirsi natura sostanzialmente penale (Sez. civ. 2, n. 2927 del 03/02/2017, Rv. 643161 – 01, in fattispecie riguardante il procedimento disciplinare a carico di un notaio; conforme, Sez. lav., n. 25485 del 26/10/2017, Rv. 646112 – 01, per la quale, in materia di pubblico impiego privatizzato, sulla base dei criteri indicati dalla Corte EDU, richiamati nelle pronunce della Corte costituzionale 16 dicembre 2016, n. 276, e 24 febbraio 2017, n. 43, deve escludersi la natura penale delle sanzioni disciplinari, in quanto il potere disciplinare non è espressione della pretesa punitiva dell’autorità pubblica, ma del potere direttivo del datore di lavoro, inteso come potere di conformazione della prestazione alle esigenze organizzative dell’impresa o dell’ente che, nei rapporti disciplinati dal d.lgs. n. 165 del 2001, ha natura privatistico-contrattuale, con la conseguenza che il lavoratore, condannato in sede penale con sentenza passata in giudicato, non può invocare l’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione EDU per sottrarsi al procedimento disciplinare, che il datore di lavoro abbia avviato per i fatti contestati in sede penale).

Il principio è stato più recentemente ribadito da Sez. civ. 2, n. 9114 del 31/03/2023, Rv. 667519 – 01 (fattispecie riguardante un procedimento disciplinare nei confronti di un medico odontoiatra), per la quale la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti a un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicché ad essa non può attribuirsi – secondo le statuizioni della sentenza della Corte EDU 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri c/o Italia – natura sostanzialmente penale.

6. La giurisprudenza della Corte EDU e quella di legittimità penale e civile sono quindi sostanzialmente concordi nell’escludere la configurabilità dei presupposti di operatività del divieto di bis in idem tra procedimento penale e procedimento disciplinare, poiché quest’ultimo può comportare unicamente l’irrogazione di sanzioni mai sostanzialmente penali, in quanto conseguenti alla violazione di regole di comportamento valevoli unicamente nell’ambito di una cerchia ristretta di soggetti, ma non anche della generalità dei consociati, essendo finalizzate unicamente a regolare l’ordinato svolgersi dei reciproci rapporti in determinati contesti e/o settori.

6.1. Pur facendo applicazione dei “criteri Engel”, alla sanzione disciplinare irrogabile nel caso di specie al ricorrente non può essere attribuita natura sostanzialmente penale, in particolare quanto alla sua “gravità”, decisivamente condizionata, in senso negativo, dal fatto che detta sanzione eserciterebbe efficacia afflittiva soltanto nel contesto carcerario e fino a che il soggetto sanzionato ne faccia parte, ma non eserciterebbe alcuna efficacia al di fuori di tale contesto.

7. Va, pertanto, enunciato il seguente principio di diritto: «Non è configurabile la violazione del divieto di bis in idem nel caso di soggetto detenuto, già sanzionato disciplinarmente ex art. 81, comma 2, d.P.R. n. 230 del 2000, successivamente chiamato a rispondere per lo stesso fatto del reato di cui all’art. 635 cod. pen.: il divieto di bis in idem tra procedimento disciplinare e procedimento penale non è stato fin qui affermato dalla Corte EDU, che anzi lo ha espressamente escluso (cfr. Corte EDU, Grande Chambre, 21 febbraio 1984, Ozturk c. Germania e 10 febbraio 2009, caso Sergey Zolotukhin c. Russia), come peraltro già chiarito nel Rapporto esplicativo sul Protocollo 7; in ogni caso, alla sanzione disciplinare de qua, in applicazione dei cc.dd. “criteri Engel”, non può essere attribuita natura penale>>.

8. Deve, pertanto, concludersi che la decisione impugnata è legittima.

9. Deve per completezza rilevarsi che, secondo l’orientamento di questa Corte, non è deducibile per la prima volta in sede di legittimità la violazione del divieto di “bis in idem” sostanziale, in quanto l’accertamento relativo alla identità del fatto oggetto dei due diversi procedimenti, intesa come coincidenza di tutte le componenti della fattispecie concreta, implica un apprezzamento di merito, né è consentito alle parti produrre in sede di legittimità documenti concernenti elementi fattuali (Sez. 2, n. 6179 del 15/01/2021, Rv. 280648 – 01); in termini solo parzialmente differenti, si è anche affermato che la preclusione derivante dal giudicato formatosi sul medesimo fatto, risolvendosi in un “error in procedendo“, è deducibile per la prima volta nel giudizio di legittimità a condizione che la decisione della relativa questione non comporti la necessità di accertamenti di fatto, nel qual caso la stessa deve essere proposta al giudice dell’esecuzione. (Sez. 1, n. 37282 del 24/06/2021, Rv. 282044 – 01).

9.1. Nel caso in esame, la questione della sussistenza della lamentata violazione del divieto di bis in idem in relazione al procedimento disciplinare iniziato nei confronti del ricorrente dinanzi all’autorità carceraria, rispetto al presente procedimento penale per il reato di danneggiamento, non risulta essere stata proposta come motivo di gravame, e ciò sebbene essa si fondi sulla trasmissione di atti al Direttore del carcere di San Vittore citata in ricorso, operata già nel 2019; sarebbe stato, pertanto, onere del difensore eccepire (in quanto già eccepibile) come motivo di appello la lamentata violazione de qua.

9.2. In ogni caso, il ricorso risulta anche privo della necessaria specificità nella parte in cui lamenta la duplicazione dei procedimenti a fronte di un procedimento amministrativo di cui non indica l’esito definitivo, ovvero la precisa entità/durata delle sanzioni in ipotesi irrogate, limitandosi ad un generico richiamo del contenuto dell’art. 39 Ord. penit.

10. L’applicazione dei sopra esposti principi comporta, nel complesso, il rigetto del ricorso; a tale declaratoria consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Roma, 11 gennaio 2024.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.