REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE PENALE
Composta da:
Dott. GIUSEPPE DE MARZO – Presidente –
Dott. STEFANO APRILE – Consigliere –
Dott. MARIA GRECA ZONCU – Consigliere –
Dott. PAOLO VALIANTE – Relatore –
Dott. CARMINE RUSSO – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
(omissis) (omissis), nato a (omissis) il xx.x.19xx;
avverso l’ordinanza del g,i.p. del Tribunale di Taranto del 3.7.2024;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Paolo Valiante;
sentita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa Lidia Giorgio, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso;
udito il difensore, avvocato (omissis) (omissis) del foro di Taranto, che si è riportato ai motivi del ricorso chiedendone l’accoglimento;
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza in data 3.7.2024, il g.i.p. del Tribunale di Taranto ha applicato a (omissis) (omissis) la misura cautelare della custodia in carcere a seguito del fermo (poi non convalidato) per i reati di tentato omicidio ai danni di (omissis) (omissis), nonché di detenzione, porto e ricettazione di arma con matricola abrasa.
Dopo aver ricostruito il fatto essenzialmente sulla base delle immagini di videosorveglianza della pescheria dell’indagato, ove (omissis) aveva esploso alcuni colpi d’arma da fuoco all’indirizzo di (omissis) all’esito di una precedente discussione, e dopo aver fatto ampio riferimento alle dichiarazioni dell’indagato in sede di interrogatorio di convalida, il g.i.p. si soffermava sulla qualificazione giuridica del fatto: in particolare, confutava la prospettazione difensiva (formulata anche sulla base dell’interrogatorio dell’indagato) secondo cui il fatto integrava piuttosto il reato di lesioni aggravate, e confermava l’imputazione provvisoria di tentato omicidio, evidenziando che almeno uno dei colpi d’arma da fuoco fosse stato sparato ad altezza d’uomo e che tale circostanza significasse che (omissis) aveva accettato il rischio della verificazione dell’evento morte; a questo proposito, l’ordinanza impugnata richiamava la giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto il dolo eventuale compatibile con il dolo d’impeto.
Quanto, poi, alla scelta della misura cautelare, il g.i.p. applicava la custodia in carcere, in considerazione della gravità del fatto, della messa in pericolo dell’ordine pubblico, della sfrontatezza dell’indagato che aveva agito in pieno giorno e sulla strada pubblica.
2. Avverso la predetta ordinanza, ha proposto ricorso il difensore di (omissis) (omissis), articolando cinque motivi.
2.1 Con il primo motivo, deduce la violazione degli artt. 111 Cost., 125 cod. proc. pen. in relazione alla compatibilità del dolo eventuale con il delitto tentato.
Lamenta che il g.i.p. abbia posto, a base della affermazione della compatibilità del dolo eventuale con il dolo d’impeto, una pronuncia di legittimità inconferente e rimarca che invece da tempo la Corte di cassazione abbia affermato in modo granitico l’incompatibilità del dolo eventuale con il tentato omicidio.
2.2 Con il secondo motivo, deduce la violazione degli artt. 111 Cost. e 125 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 273, 292 cod. proc. pen.
Si duole che il g.i.p. abbia fondato la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza solo sull’ultima parte dell’azione di (omissis) e non abbia invece valutato il pregresso della vicenda. In ogni caso, erra il g.i.p. quando afferma che la idoneità del colpo dipende dal fatto che sia stato esploso ad altezza d’uomo, senza considerare che la vittima era in quel momento seduta, sicché il richiamo al concetto di “altezza uomo” è inappropriato.
Il g.i.p., inoltre, erra anche quando afferma che la vittima è stata attinta dal colpo di pistola all’avambraccio destro, non considerando che dal referto medico risulta che egli sia stato colpito da una scheggia (“corpo estraneo”) conseguente alla rottura del vetro, anche perché difficilmente l’ogiva di un colpo di pistola cal. 7,65 si sarebbe fermata nel braccio senza oltrepassare i tessuti molli (nel qual caso, avrebbero dovuto rinvenirsi un foro di entrata e un foro di uscita): anche dalla radiografia risulta che il corpo estraneo sia una scheggia, probabilmente di vetro. Comunque, il g.i.p. non ha valutato che la vittima era alla guida della propria autovettura e che quindi il braccio era verosimilmente proteso sullo sterzo, e dunque distaccato da altri organi vitali.
2.3 Con il terzo motivo, deduce la violazione degli artt. 125, 192 cod. proc. pen. per omessa valutazione delle dichiarazioni dell’indagato.
In particolare, il g.i.p. non ha spiegato perché le ritenga non riscontrate, nonostante le immagini documentino la estorsione e il pestaggio lamentati dal ricorrente. Né, ancora, ha tenuto conto del comportamento della vittima e dei suoi familiari, finalizzato nell’immediatezza del fatto a cancellare le tracce del suo telefono, e delle dichiarazioni del dipendente dell’istituto di credito presso cui l’indagato avrebbe prelevato il denaro consegnato alla vittima.
2.4 Con il quarto motivo, deduce, la violazione degli artt. 111 Cost., 125 cod. proc. pen. per omessa valutazione delle dichiarazioni dell’indagato circa la configurabilità del furto anziché della ricettazione dell’arma con cui ha sparato.
Il g.i.p., infatti, non ha tenuto conto che (omissis) ha detto nel suo interrogatorio di avere personalmente rubato la pistola.
2.5 Con il quinto motivo, deduce la violazione degli artt. 111 Cost., 125 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 274 e 275 cod proc. pen. per illogicità della motivazione sulla sussistenza delle esigenze cautelari.
Lamenta che la scelta della misura della custodia in carcere non tenga conto delle dichiarazioni dell’indagato circa la causale del fatto, né della circostanza che (omissis) abbia spontaneamente consegnato l’arma e le immagini del sistema di videosorveglianza del suo esercizio commerciale che avevano filmato il fatto.
3. Con requisitoria scritta del 13.9.2024, cui si è riportato nella udienza pubblica, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, in quanto, in tema di misure cautelari personali, il ricorso per cassazione è ammissibile solo se denuncia la violazione di specifiche norme di legge o la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento, ma non anche quando propone censure che riguardano la ricostruzione dei fatti, o che, come nel caso in esame, si risolvono in una diversa valutazione degli elementi esaminati dal giudice del merito cautelare.
Quanto, in particolare, all’elemento psicologico del reato, il g.i.p. ha adeguatamente motivato, facendo riferimento all’insegnamento giurisprudenziale secondo cui la figura del dolo diretto può sussistere anche nella sua forma di dolo alternativo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è complessivamente infondato per le ragioni che saranno di seguito esposte.
Giacché tutti i motivi del ricorso “per saltum” in questione richiamano, in ultima analisi, la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen., appare opportuno ricordare in premessa che il ricorso diretto per cassazione avverso un’ordinanza applicativa di misura coercitiva può essere proposto, ai sensi dell’art. 311, comma secondo, cod. proc. pen., soltanto per violazione di legge.
Secondo il principio affermato da tempo dalle Sezioni Unite di questa Corte, è comunque deducibile, qualora il ricorso per cassazione sia ammesso esclusivamente per violazione di legge, la mancanza o la mera apparenza della motivazione, atteso che in tal caso si prospetta la violazione della norma che impone l’obbligo della motivazione nei provvedimenti giurisdizionali (Sez. U, n. 25080 del 28/5/2003, Rv. 2254611 – 01).
Ciò nondimeno, per violazione di legge deve intendersi, con riferimento al vizio inerente alla motivazione, quella che ha per oggetto i soli requisiti minimi di esistenza e di completezza della stessa, atteso che il ricorso “per saltum” ex art. 311, comma secondo, cod. proc. pen., è alternativo al riesame, sede deputata per le censure riguardanti lo sviluppo logico-giuridico delle argomentazioni del provvedimento impugnato e per l’esame delle prospettazioni del ricorrente in ordine agli elementi probatori acquisiti agli atti (Sez. 6, n. 47676 dell’11/10/2023, Rv. 285531 – 01; Sez. 6, n. 44996 del 13/11/2008, Rv. 241664 – 01).
1. Il primo motivo di ricorso attiene alla individuazione dell’elemento psicologico del tentato omicidio, provvisoriamente contestato a (omissis) (omissis).
Effettivamente, il g.i.p., nell’ordinanza di convalida dell’arresto e di contestuale applicazione della misura cautelare, giunge a sostenere, nella parte relativa alla gravità indiziaria e alla qualificazione del fatto, che la condotta del ricorrente abbia integrato l’elemento psicologico del reato di cui agli artt. 56 e 575 cod. pen. nella forma del dolo eventuale (par. 3 dell’ordinanza). In questo modo, rende una affermazione testuale che confligge con la ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui il dolo eventuale non è compatibile con il delitto tentato (Sez. 6, n. 14342 del 20/3/2012, Rv. 252565 – 01; Sez. 1, n. 25114 del 31/3/2010, Rv. 247707 – 01; Sez. 1, n. 44995 del 14/11/2007, Rv. 238705 – 01).
Ora, il profilo dell’elemento soggettivo del reato è stato affrontato nell’ordinanza impugnata all’esito della ricostruzione del fatto, che non soffre di alcuna carenza, nel senso che il g.i.p. ha dato esaurientemente conto del suo svolgimento, come desumibile in particolare dalla visione delle immagini registrate dal sistema di videosorveglianza della pescheria dell’indagato.
Dopo la ricostruzione del fatto, l’ordinanza è passata a prendere in considerazione la sua qualificazione giuridica, soprattutto alla luce della prospettazione difensiva (evidentemente formulata già nella sede dell’interrogatorio di garanzia dell’arrestato) secondo cui era configurabile il reato di lesioni aggravate anziché quello contestato dal p.m. di tentato omicidio.
Ebbene, nel prosieguo del suo provvedimento il g.i.p. ha correttamente richiamato la costante giurisprudenza di legittimità, per la quale, in tema di omicidio tentato, ai fini dell’accertamento della sussistenza dell’animus necandi occorre far riferimento all’idoneità dell’azione, da apprezzarsi in concreto con una prognosi ex post ma con riferimento alla situazione che si presentava ex ante all’agente, attraverso la considerazione dei dati della condotta ovvero delle peculiarità intrinseche dell’azione criminosa che assumono valore sintomatico in base alle comune regole di esperienza.
In questa cornice, l’ordinanza ha menzionato in modo appropriato la circostanza di fatto che (omissis), dopo aver esploso i primi due colpi d’arma da fuoco in direzione degli arti inferiori della vittima, spari nuovamente all’indirizzo di (omissis) che sta allontanandosi alla guida della propria auto e che lo faccia ad altezza d’uomo, in particolare infrangendo il finestrino del veicolo lato passeggero e colpendo la persona offesa al braccio destro. Alla luce di tale elemento fattuale, il g.i.p. ha respinto la versione difensiva, secondo cui difettasse nell’indagato la volontà omicidiaria, evidenziando testualmente che “(omissis) nello sparare con il braccio teso ad altezza uomo e con la macchina in movimento (…) si fosse rappresentato (…) la morte dell’uomo”.
Senonché, ha interpolato nella frase un riferimento all’accettazione del rischio di verificazione dell’evento e ha aggiunto letteralmente un richiamo alla giurisprudenza relativa alla compatibilità del dolo eventuale con l’impeto dell’azione, peraltro con il rinvio inconferente ad una massima di legittimità riguardante, piuttosto, un caso in cui si verteva in tema di omicidio consumato e non tentato.
Dunque, si può in definitiva affermare che il fatto sia stato accuratamente ricostruito (lo si afferma, evidentemente, nei ristretti limiti entro cui, nel sindacato della motivazione, può muoversi il giudice di legittimità in caso di ricorso “per saltum“) e che alla ricostruzione del fatto abbia fatto seguito una motivazione che, in astratto, si attaglia esattamente alla individuazione dell’elemento soggettivo nel dolo diretto, quantomeno nella sua forma di dolo alternativo (compatibile con il tentato omicidio), piuttosto che nel dolo eventuale (incompatibile con il tentato omicidio).
Sotto quest’ultimo profilo, in particolare, l’ordinanza fa riferimento ad una pluralità di elementi immediatamente evocativi di una situazione in cui l’agente, sparando all’indirizzo della vittima, ha previsto come conseguenza certa (e non meramente possibile) della sua azione il verificarsi di due eventi alternativi tra loro, volendone indifferentemente uno dei due (sulla compatibilità del dolo alternativo con il tentato omicidio, si vedano, per esempio, Sez. 1, n. 43250 del 13/4/2018, Rv. 274402 – 01; Sez. 1, n. 9663 del 3/10/2013, dep. 2014, Rv. 259465 – 01).
Non può annettersi altro significato alla parte dell’ordinanza in cui si richiama la circostanza che, dopo aver già esploso alcuni colpi d’arma da fuoco di tipo prevalentemente intimidatorio senza raggiungere lo scopo, (omissis) abbia infine puntato l’arma con il braccio teso ad altezza d’uomo, a distanza estremamente ravvicinata dalla vittima, la quale non a caso è stata raggiunta dal colpo all’avambraccio prima di riuscire ad allontanarsi definitivamente alla guida della propria auto.
E ciò, peraltro, dopo che il provvedimento stesso aveva riportato ampi stralci dell’interrogatorio dell’arrestato, il quale, pur negando la volontà omicidiaria, aveva riconosciuto di avere sparato ad altezza d’uomo ad un metro di distanza da (omissis).
Ciò nonostante, il g.i.p. indica testualmente nel dolo eventuale la componente psicologica dell’azione dell’indagato diretta a cagionare la morte della vittima. Se è così, si può affermare, pertanto, che l’ordinanza abbia bene selezionato gli elementi indiziari sulla base dei quali ricostruire il fatto e abbia in concreto motivato su elementi rilevanti rispetto alla fattispecie contestata di tentato omicidio.
Tuttavia, sulla base di tale ricostruzione e di tali elementi ha rassegnato una conclusione in termini di elemento soggettivo del reato, che integra formalmente una erronea interpretazione della legge penale nella parte in cui afferma la compatibilità del dolo eventuale con il delitto tentato.
Malgrado ciò, è da ritenersi che la precedente motivazione sia del tutto idonea a sostenere un giudizio fattuale coerente anche con la corretta applicazione della legge penale, nel senso che la qualificazione giuridica finale di tentato omicidio è corretta rispetto al fatto come ricostruito dal giudice e rispetto agli elementi del fatto stesso che il giudice ha appena prima valorizzato, al fine di sostenere appunto la impermeabilità della prospettazione accusatoria rispetto alle eccezioni difensive, in termini di definizione giuridica della condotta dell’arrestato. Insomma, la motivazione, in quanto idonea a dimostrare la sussistenza del dolo alternativo, ha reso in concreto irrilevante il passaggio finale dell’ordinanza affetto da un errore nella interpretazione della legge penale.
Si tratta, in definitiva, di un segmento ininfluente della motivazione, in quanto il giudizio di fatto sorregge sia l’interpretazione inesatta (la sufficienza del dolo eventuale) sia la l’interpretazione corretta (la necessità del dolo diretto).
Ne consegue, pertanto, il rigetto del motivo di ricorso.
2. Il secondo, il terzo e il quarto motivo di ricorso possono essere trattati congiuntamente, in quanto propongono, di fatto, censure relative a vizi di motivazione nient’affatto riconducibili alla denuncia di mancanza assoluta di motivazione, ovvero quella priva dei requisiti minimi di esistenza e di completezza, che, come si ricordava in premessa, è l’unico vizio di motivazione da potersi far valere in sede di ricorso “per saltum“.
Con i motivi in questione, infatti, si lamenta, da un lato, che la ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato sia inficiata da una valutazione errata delle posizioni di sparatore e vittima nonché da una sottovalutazione della giustificazione offerta dall’indagato, fino ad arrivare a contestare che quella estratta dal braccio di Circelli non fosse una ogiva ma una scheggia di vetro; dall’altro, si censura che il g.i.p. abbia omesso di prendere realmente in considerazione il comportamento della vittima susseguente al fatto e abbia trascurato le dichiarazioni dell’indagato.
Si tratta, come è evidente, di doglianze estranee al perimetro della valutazione di legittimità conseguente a ricorso diretto per cassazione avverso l’ordinanza applicativa di una misura coercitiva, nell’ambito del quale, ove il giudice per le indagini preliminari abbia specificamente esposto gli indizi che giustificano in concreto la misura coercitiva disposta, indicandone la genesi, il contenuto e la rilevanza, è improponibile ogni censura diretta a rilevare eventuali illogicità o contraddizioni del provvedimento impugnato (Sez. 4, n. 45611 del 28/10/2021, Rv. 282548 – 02).
Peraltro, in tema di misure cautelari personali, vale in generale – quale che sia il mezzo di proposizione del ricorso per cassazione (a seguito di riesame o appello ovvero “omisso medio”) – il principio secondo cui alla Corte suprema spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (Sez. U, n. 11 del 22/3/2000, Rv. 215858 – 01).
Questo vuoi dire che il controllo di legittimità non può intervenire nella ricostruzione dei fatti, né sostituire l’apprezzamento del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza dei dati probatori: con la conseguenza che non possono ritenersi ammissibili le censure, che, pur formalmente investendo la motivazione, si risolvono in realtà nella sollecitazione a compiere una diversa valutazione di circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, in motivazione; Sez. 2, n. 27866 del 17/6/2019, Rv. 276976 – 01; Sez. 4, n. 26992 del 29/5/2013, Rv. 255460 – 01).
Ne deriva, pertanto, l’inammissibilità del secondo, del terzo e del quarto motivo di ricorso.
3. Anche con il quinto motivo, il ricorso prospetta non più che un diverso apprezzamento delle esigenze cautelari, lamentando l’illogicità della motivazione dell’ordinanza impugnata.
In tal modo, tuttavia, vengono nuovamente travalicati i confini del ricorso diretto per cassazione avverso l’ordinanza applicativa di una misura coercitiva, con la denuncia di un vizio della motivazione, riferito questa volta alla sussistenza delle esigenze cautelari.
Come già evidenziato, ove il giudice per le indagini preliminari abbia specificamente esposto le esigenze cautelari, in sede di legittimità non possono essere proposte, in caso di ricorso diretto per cassazione, censure dirette a far valere – come nel caso di specie – eventuali illogicità del provvedimento impugnato.
Anche questo motivo, pertanto, è inammissibile.
4. Alla luce di quanto fin qui osservato, dunque, il ricorso deve essere rigettato in quanto complessivamente infondato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Giacché dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, si deve disporre ex art. 94, comma 1 -ter, disp. att. cod. proc. pen., che copia del provvedimento sia trasmessa, a cura della Cancelleria, al Direttore dell’Istituto penitenziario ove è attualmente ristretto (omissis) (omissis).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso il 4.10.2024.
Depositato in Cancelleria il 3 gennaio 2025.