LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ALDO CARRATO – Presidente
RICCARDO GUIDA – Consigliere
FEDERICO ROLFI – Consigliere Rel.
CESARE TRAPUZZANO – Consigliere
VALERIA PIRARI – Consigliere
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14062/2022 R.G. proposto da:
(omissis) (omissis) (omissis) elettivamente domiciliata in (omissis)
– ricorrente –
contro
COMUNE DI (omissis) elettivamente domiciliato in (omissis)
– controricorrente –
avverso la SENTENZA del TRIBUNALE di VENEZIA n. 2221/2021 depositata il 25/11/2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 12/07/2023 dal Consigliere Dott. Federico Rolfi;
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza 2221/2021 del 25 novembre 2021, il Tribunale di Venezia ha respinto l’appello proposto dalla società (omissis) (omissis) SNC di (omissis) (omissis) (omissis) avverso la sentenza del Giudice di Pace di (omissis) 237/2019, la quale, a propria volta, aveva respinto il ricorso proposto dalla medesima società avverso l’ordinanza-ingiunzione n. 3993/2016 del 7 aprile 2017, con la quale il Comune di (omissis) aveva contestato all’opponente la violazione dell’art. 6, comma 2, Reg. CE 852/2004 in relazione all’art. 9 dell’All. A, Decreto Dir. Reg. 140/2008, L.R. Veneto n. 29/2007 per omesso aggiornamento della registrazione al (omissis) a seguito del passaggio all’esercizio di attività di somministrazione di alimenti e bevande a fronte di un’autorizzazione all’esercizio di vicinato.
2. Il Tribunale:
– ha ritenuto provato, sulla scorta della documentazione in atti e delle deposizioni assunte nel giudizio di primo grado, che la società appellante non svolgesse nei propri locali mera attività artigianale di vicinato bensì vera e propria attività di somministrazione di alimenti e bevande, risultando in particolare che nei locali erano presenti anche tavolini che i clienti potevano impiegare per la consumazione dei pasti, senza limite di tempo e senza che il consumo immediato costituisse mera attività accessoria rispetto a quella dell’acquisto dei prodotti per l’asporto;
– conseguentemente ha disatteso il motivo di gravame con il quale veniva dedotta l’applicabilità dell’art. 3, comma 1, R. Veneto n. 67/1987 sull’attività artigianale, osservando che, pur essendo tale attività esclusa dall’operatività della L.R. Veneto n. 29/2007, nondimeno risultava dall’istruttoria che l’attività di somministrazione sul posto non aveva carattere strumentale ed accessorio, come previsto dalla citata L.R. Veneto n. 67/1987, ma di fatto consisteva nell’attività principale, da ciò risultando esclusa l’applicabilità di tale ultima disciplina;
– ha escluso che la previsione di legge regionale contrastasse con il divieto di autorizzazioni preventive di cui al L. n. 223/2006, argomentando che la S.C.I.A. non consiste in un’autorizzazione preventiva, trattandosi di mera comunicazione e dovendosi distinguere il profilo dell’autorizzazione preventiva dal profilo della successiva comunicazione per la variazione della S.C.I.A.;
– ha disatteso le doglianze con le quali venivano reiterati i motivi di opposizione relativi alla mancata contestazione immediata della violazione, rilevando che il verbale di accertamento era stato notificato entro i termini di legge;
– ha rilevato che nella specie il Comune aveva applicato anche la disciplina di cui al 852/2004 in tema di alimenti;
– ha compensato le spese dei due gradi del giudizio.
3. Per la cassazione della sentenza del Tribunale di (omissis) ricorre ora (omissis) (omissis) (omissis) SNC (omissis) (omissis) (omissis) & C.
Resiste con controricorso il COMUNE DI (omissis)
4. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma dell’art. 380 1, c.p.c.
La società ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è affidato a tre motivi.
1.1. Con il primo motivo il ricorso, in relazione all’art. 360, 3 e 5, c.p.c., denuncia, testualmente:
“Violazione e falsa applicazione dell’art. 3 (Definizione di impresa artigiana) della Legge Regionale del Veneto 31 dicembre 1987, N. 67 (Disciplina dell’artigianato).
Violazione dell’art. 112 c.p.c.
Violazione dell’art. 2700 c.c.”.
La ricorrente, dopo aver sottolineato di essere iscritta nella Sezione Ordinaria del Registro delle Imprese di (omissis) ed annotata con la qualifica di impresa artigiana, argomenta nel senso della riconducibilità della sua attività nell’ambito dell’art. 3 (Definizione di impresa artigiana) della L.R. 31 dicembre 1987, N. 67, concludendo, quindi, nel senso della sua qualificazione nei termini di attività artigianale e non di esercizio di vicinato.
Si duole, quindi, del fatto che il Tribunale di Venezia abbia assunto la propria decisione in violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto il Comune di (omissis) non avrebbe allegato e provato che l’attività di somministrazione alimenti e bevande fosse prevalente rispetto all’attività artigianale e comunque di laboratorio.
1.2. Con il secondo motivo il ricorso, in relazione all’art. 360, 3 e 5, c.p.c., deduce, testualmente:
“Illegittima e/o falsa applicazione degli artt. 1 e 3 L. 241/1990.
Illegittima e/o falsa applicazione degli artt. 8 – 10 L.R. 29/2007.
Illegittimità della Sentenza per mancata applicazione dell’art. 3 (Definizione di impresa artigiana) Legge Regionale 31 dicembre 1987, 67 (Disciplina dell’artigianato) e dell’art. 3, comma 1, lettera f-bis) del D.L. 4 aprile 2006, n. 223 (convertito, con modificazioni, nella L. 4 agosto 2006, n. 248).
Illegittimità della Sentenza per mancata applicazione della violazione del combinato disposto dell’art. 3 (Regole di tutela della concorrenza nel settore commerciale) del Decreto Legge 223/2006 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale; convertito in L. 248/2006), degli artt. 1 (Oggetto e finalità), 8 (Definizioni), 11 (Requisiti vietati) e 14 (Regimi autorizzatori) del Decreto Legislativo 59/2010 (Attuazione della Direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno), dell’art. 3 (Abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni e delle attività economiche) del Decreto Legge 138/2011 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo; convertito in L. 148/2011), degli artt. 31 (Esercizi commerciali) e 34 (Liberalizzazione delle attività economiche ed eliminazione dei controlli ex ante) del Decreto Legge 201/2011 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici; convertito in L. 214/2011), dell’art. 1 (Liberalizzazione delle attività economiche e riduzione degli oneri amministrativi sulle imprese) del Decreto Legge 1/2012 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività; convertito in L. 27/2012) e degli artt. 12 (Semplificazione procedimentale per l’esercizio di attività economiche e segnalazione certificata di inizio attività) e 41 (Semplificazione in materia di somministrazione temporanea di alimenti e bevande) del Decreto Legge 5/2012 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione e di sviluppo; convertito in L. 35/2012).
Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6, c. 2 del Reg. CE 852/2004 in relazione all’art. 9 dell’Allegato A del Decreto Dir. Reg. n. 140/2008 sanzionato ex art. 6, c. 3 del D. Lgs, n. 193/2007″.
Con riferimento alla dedotta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 8, L.R. 29/2007, la ricorrente ribadisce la propria veste di attività artigiana, e non di esercizio di somministrazione di alimenti e bevande.
Con riguardo alla prospettata violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6, comma 2 del Reg. CE 852/2004 in relazione all’art. 9 dell’Allegato A del Decreto Dir. Reg. n. 140/2008, sanzionato ex art. 6, comma 3, del D. Lgs, n. 193/2007, con il motivo si invoca una diversa decisione del Tribunale di Venezia che avrebbe escluso l’applicabilità di tale disciplina, rilevando che le modalità concrete con le quali avveniva la somministrazione non integrassero un servizio di ristorazione.
La ricorrente, richiamato il disposto di cui all’art. 3, comma 1, lettera f-bis) del D.L. 4 aprile 2006, n. 223 e la giurisprudenza del Consiglio di Stato formatasi sul tema, denuncia un non corretto inquadramento della fattispecie, argomentando nel senso dell’assenza di prova in ordine all’effettuazione di servizio ai tavoli, richiamando sul punto la giurisprudenza del Consiglio di Stato in relazione al menzionato art. 3, comma 1, lettera f-bis) del D.L. 4 aprile 2006, n. 223, dalla quale si evincerebbe l’assenza di obbligo di munirsi di autorizzazioni per la somministrazione di alimenti con possibilità di consumazione sul posto nell’ipotesi in cui tale attività non sia assistita da servizio ai tavoli.
1.3. Con il terzo motivo il ricorso, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., deduce, testualmente:
“Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6, c. 3 D. Lgs 193/2007 (Verbale n (omissis) (omissis) Ordinanza Comune di (omissis) n. (omissis);
Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 16 L. 689/1981 Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 11 L. 689/1981.
Violazione degli artt. 1 e 3 L. 241/1990.
Violazione dell’art. 112 c.p.c. per mancata corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato”.
Argomenta, in particolare, il ricorso che:
– il Tribunale avrebbe omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame che concerneva la determinazione della sanzione;
– la sanzione irrogata sarebbe comunque illegittima perché irrogata in misura superiore al minimo edittale.
2. Rileva il collegio che il primo motivo di ricorso è inammissibile.
Quanto al riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c., si deve rilevare che non solo la società ricorrente ha radicalmente omesso di articolare la censura secondo i principi fissati da Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014 – e quindi, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6), e 369, secondo comma, 4), c.p.c., indicando: 1) il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso; 2) il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente; 3) il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti; 4) la sua “decisività” – ma anche che, essendo stato instaurato il giudizio di appello nel 2020, trova applicazione il disposto di cui all’art. 348-ter c.p.c., dal momento che la decisione del Tribunale non risulta essersi del tutto distaccata dal ragionamento del Giudice di Pace e, in ogni caso, la parte ricorrente non ha compiutamente indicato le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. Sez. L – Sentenza n. 20994 del 06/08/2019; Cass. Sez. 1 – Sentenza 26774 del 22/12/2016; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5528 del 10/03/2014).
Quanto al riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c., va osservato che il motivo, invero, pur deducendo formalmente una violazione o falsa applicazione di norme di diritto, si traduce nel concreto in un’ampia contestazione della valutazione delle prove operata dal giudice di merito, senza in realtà individuare nello specifico le affermazioni della decisione impugnata che si porrebbero in contrasto con il dato normativo.
Si deve rammentare che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366, n. 4, c.p.c., non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione. (cfr., tra le tante, Cass. Sez. 1 Ordinanza 16700 del 05/08/2020; Cass. Sez. 1 – Sentenza n. 24298 del 29/11/2016).
Il ricorrente, quindi, a pena d’inammissibilità della censura, ha l’onere di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. Sez. U – Sentenza n. 23745 del 28/10/2020).
Ulteriormente, va ribadito che non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 640 del 14/01/2019; Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019).
Nel caso in esame, invero, la società ricorrente, ben lungi dall’individuare i passaggi argomentativi della decisione impugnata dai quali verrebbe ad emergere il vizio dedotto, procede ad una serie di contestazioni che concernono unicamente la ricostruzione fattuale operata dalla sentenza del Tribunale di Venezia.
Tali deduzioni si traducono in un inammissibile sindacato della valutazione delle prove operata dal Tribunale, ponendosi in conflitto con il principio, enunciato da questa Corte, per cui, nel procedimento civile, sono riservate al giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (v., ad es., Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 21187 del 08/08/2019; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1554 del 28/01/2004).
Come questa Corte ha più volte sottolineato (Cass. Sez. 2 – Sentenza n. 11176 del 08/05/2017), il suo compito non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici del merito (cfr. Cass., Sez. 3, n. 3267 del 12/02/2008), dovendo invece essa limitarsi a controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il ragionamento probatorio, da essi reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile.
3. Il secondo motivo di ricorso è, parimenti, inammissibile.
Quanto al riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c., l’inammissibilità discende dalle medesime ragioni già evidenziate in relazione al primo motivo di ricorso, dovendosi rilevare che anche nel caso del secondo motivo l’articolazione della censura non solo è del tutto carente, ma anche risulta preclusa dal disposto di cui all’art. 348- ter c.p.c.
Quanto al riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c., anche in questo caso, infatti, il motivo, dopo il richiamo ad una cospicua serie di fonti normative, di fatto si limita a dedurre che il giudice di merito “non ha correttamente inquadrato la fattispecie di cui è causa” (pag. 11 del ricorso), procedendo poi ad una contestazione delle risultanze testimoniali, in tal modo evidenziando che, ancora una volta, ad essere dedotta – in modo inammissibile – è un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, e cioè un profilo che è esterno all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 640 del 14/01/2019; Cass. Sez. 1 – Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019).
4. Il terzo motivo di ricorso, infine, è infondato.
Questa Corte, infatti, ha reiteratamente chiarito che per integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto, con la conseguenza che tale vizio non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (Cass. Sez. 3 – Sentenza n. 2151 del 29/01/2021; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15255 del 04/06/2019; Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 20718 del 13/08/2018).
Nel caso in esame, la motivazione della decisione risulta avere comunque operato una valutazione della fattispecie concreta anche in relazione alla quantificazione della sanzione, valendo in ogni caso il principio per cui, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie, ove la norma indichi un minimo e un massimo della sanzione, spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l’entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi, senza che, peraltro, il giudice sia tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, e senza che la Corte di cassazione possa censurare la statuizione adottata, ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta (Cass. Sez. 2 – Ordinanza n. 4844 del 23/02/2021; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9255 del 17/04/2013).
5. Il ricorso deve quindi essere respinto, con conseguente condanna della società ricorrente alla rifusione in favore del Comune controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate direttamente in dispositivo.
6. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater P.R. n. 115/02, della “sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto”, spettando all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento (Cass. Sez. U, Sentenza n. 4315 del 20/02/2020 – Rv. 657198 – 05).
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio del presente giudizio, liquidate in € 1.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre accessori nella misura e sulle voci come per legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale in data 12 luglio 2023.
Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2023.