R E P U B B L I C A I T A L I A N A
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg. ri Magistrati:
Dott. ANTONIO MANNA – Presidente –
Dott. ANNALISA DI PAOLOANTONIO – Rel. Consigliere –
Dott. IRENE TRICOMI – Consigliere –
Dott. SALVATORE CASCIARO – Consigliere –
Dott. ILEANA FEDELE – Consigliere –
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 22148 -2022 proposto da:
(omissis) (omissis);
– ricorrente –
contro
COMUNE DI (omissis) in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata (omissis);
– controricorrente –
nonché contro
ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO – INAIL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in (omissis);
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 457/2022 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 29/07/2022 R.G.N. 67/2021;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/05/2023 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
FATTI DI CAUSA
1. La Corte d’appello di Firenze ha respinto l’appello di (omissis) (omissis) avverso la sentenza del Tribunale di Livorno che aveva rigettato il ricorso proposto nei confronti del Comune di (omissis) volto ad ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento intimato dall’ente territoriale per superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro, ed aveva invece accolto la domanda riconvenzionale del Comune e condannato il ricorrente alla restituzione della somma di € 14.071,64.
La Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che (omissis), dipendente dell’ente e responsabile dal 2010 dell’area amministrativa, era stato licenziato il (omissis) (omissis) dopo una lunga assenza per malattia, iniziata nell’aprile 2017, ed aveva agito in giudizio chiedendo, in via principale, l’accertamento della natura professionale della patologia dalla quale era affetto, che, in quanto derivata dalla violazione da parte del datore dell’art. 2087 cod. civ., non andava computata ai fini del comporto, e, in via subordinata, del diritto all’applicazione del comma 2 dell’art. 36 CCNL 21.8.2018 per il personale del comparto enti locali che prevede la concessione di un ulteriore periodo di 18 mesi nei casi di particolare gravità e sempre a condizione che il dipendente ne faccia richiesta.
3. Ricostruita la vicenda processuale e richiamate le deposizioni testimoniali assunte in grado di appello, la Corte distrettuale ha ritenuto infondati tutti i motivi di impugnazione ed ha rilevato, in sintesi, che:
a) dall’istruttoria non erano emersi il dedotto sovraccarico lavorativo e le indebite pressioni che, a detta dell’appellante, sarebbero state esercitate dall’amministrazione per ottenere prestazioni di lavoro esorbitanti rispetto alla normalità, sicché non risultavano provate né l’origine professionale della malattia, esclusa anche dall’Inail, né la responsabilità del datore;
b) ai sensi dell’art. 53, comma 23, della legge 388/2000 il Sindaco era competente ad intimare il licenziamento in deroga al principio di separazione fra attività di gestione e attività di indirizzo politico;
c) l’art. 36 del richiamato CCNL prevede la facoltà dell’ente locale di concedere un ulteriore periodo di comporto, nei casi di particolare gravità, e pertanto l’amministrazione non era obbligata ad accogliere l’istanza, non era tenuta al rispetto dell’art. 3 della legge 241/1990, non applicabile agli atti di gestione del rapporto di impiego privatizzato, e poteva senz’altro, come evidentemente accaduto nella fattispecie, dare prevalenza alle proprie esigenze organizzative;
d) il licenziamento era stato tempestivamente adottato perché il Comune aveva dovuto attendere l’accertamento dell’Inail sulla natura professionale della malattia, che avrebbe inciso sulle modalità di calcolo del periodo di conservazione del posto di lavoro;
e) la delibera con la quale il Comune aveva nominato il difensore non era affetta da nullità, perché motivata per relationem, e, pertanto, la domanda riconvenzionale era stata validamente proposta;
f) la contestazione sul quantum della pretesa restitutoria era stata formulata, inammissibilmente, solo in grado di
4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso(omissis) (omissis) sulla base di 13 motivi, ai quali hanno opposto difese con controricorso il Comune di (omissis) e l’INAIL.
5. L’Ufficio della Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
6. Il ricorrente ed il Comune di (omissis) hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 3 cod. proc. civ. il ricorrente denuncia la violazione di plurime disposizioni del d.lgs. n. 165/2001 (artt. 4, 14,15, 16,17 e 27) e del d.lgs. n. 267/2000 (artt. 1, comma 4, 6,7, 36, 42, 48, 50, 88, 89,107 e 111) nonché dell’art. 53, comma 23, della legge n. 383/2000, degli artt. 2, 21, 22 e 62 dello Statuto Comunale del 2001, dell’art. 114 Cost. e sostiene, in sintesi, che ha errato la Corte territoriale nell’escludere l’eccepita incompetenza del Sindaco ad adottare l’atto di licenziamento.
Rileva, in particolare, che dal complesso delle norme richiamate in rubrica si desume il principio della necessaria separazione del potere di gestione rispetto a quello di indirizzo politico, principio al quale non si poteva sottrarre il Comune di (omissis) perché nell’approvare lo Statuto comunale non aveva ritenuto di avvalersi della deroga consentita dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000. Il regolamento del 14 febbraio 2019 che, invece, quella deroga aveva attuato, non poteva derogare alle disposizioni statutarie e, pertanto, doveva essere disapplicato, anche in ragione della natura normativa dello Statuto.
2. La seconda censura, ricondotta al vizio di cui al 3 dell’art. 360 cod. proc. civ., addebita alla Corte distrettuale di avere violato l’art. 36 del CCNL 21 maggio 2018 per il personale del comparto Funzioni Locali, dell’art. 2 della legge n. 604/1966, dell’art. 2110 cod. civ..
Il ricorrente, richiamata la disciplina contrattuale ed evidenziato che l’amministrazione non aveva mai negato di avere ricevuto le richieste di prolungamento del comporto, evidenzia che il licenziamento doveva essere motivato anche esplicitando le ragioni per le quali l’istanza non poteva trovare accoglimento.
Aggiunge che il Comune aveva avviato la verifica delle condizioni di salute prevista dal comma 3 del richiamato art. 36, verifica che si era conclusa con il giudizio medico legale rispondente alle aspettative del dipendente, sicché nell’intimare il licenziamento avrebbe dovuto indicare quali fossero le ragioni che (omissis) di effettuare quel bilanciamento fra gli opposti interessi tra le parti che la contrattazione ha pensato di realizzare attraverso la previsione, nei casi di maggiore gravità, della proroga. Rileva, infine, che le esigenze organizzative richiamate nella motivazione della sentenza impugnata non erano state allegate dall’amministrazione, che delle stesse non aveva fatto menzione neppure in sede giudiziale.
3. Il terzo motivo denuncia, sempre ai sensi dell’art. 360 3 cod. proc. civ., la violazione sotto altro profilo dell’art. 36 del CCNL 21.5.2018 e dell’art. 2110 cod. civ.. Il ricorrente deduce che il giudice d’appello avrebbe dovuto rilevare la tardività del recesso, intervenuto solo il 9 maggio 2019 a distanza di oltre 5 mesi dalla comunicazione del medico competente, il quale si era espresso sulla possibilità di concedere al dipendente un ulteriore periodo di malattia.
Aggiunge che la natura professionale della malattia rilevava solo ai fini del trattamento economico e, pertanto, il ritardo non poteva essere giustificato dalla necessità di attendere le valutazioni conclusive dell’INAIL. Richiama, infine, il termine di trenta giorni giorni previsto dal quinto comma dell’art. 36, non rispettato neppure assumendo quale dies a quo il provvedimento dell’INAIL del 4 aprile 2019.
4. Con la quarta critica il ricorrente torna a denunciare, ex 360 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del CCNL 21 maggio 2018, e dell’art. 2110 cod. civ. alla quale affianca quella degli artt. 1175 e 1375 cod. civ. e addebita alla Corte territoriale di non aver tenuto in alcun conto il principio secondo cui i contraenti devono comportarsi nel rispetto dei canoni generali di correttezza e buona fede.
5. Il quinto motivo addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione degli 2087, 2043 e 2697 cod. civ., degli artt. 1 e 3 del d.P.R. 1124/1965, dell’art. 13 del d.lgs. n. 38/2000, degli artt. 115, 116 e 420 cod. proc. civ., dell’art. 38 del CCNL 21 maggio 2018.
Il ricorrente sostiene, in sintesi, che anche a voler ritenere non provata l’esistenza di condizioni lavorative avversative addebitabili al datore di lavoro, la Corte territoriale avrebbe dovuto indagare se il ruolo rivestito all’interno dell’organizzazione dell’ente avesse svolto un ruolo causale o concausale nell’insorgenza della patologia psichica.
6. La sesta critica denuncia la violazione e falsa applicazione degli 115, 116, 118, 210, 191, 345, 420, 437 cod. proc. civ., del d.P.R. n. 1124/1965 (artt. 1 e 3), dell’art. 28 del d.lgs. n. 81/2008, dell’art. 2697 cod. civ., dell’art. 1 del d.lgs. n. 38/2000 e censura la decisione nella parte in cui ha ritenuto non necessari approfondimenti istruttori e non decisivo il Documento di Valutazione del Rischio, dal quale emergeva un rischio elevato per il personale amministrativo, quanto allo stress correlato al lavoro, e si sollecitava l’adozione da parte del datore di metodologie finalizzate a ridurre il rischio medesimo. Il ricorrente aggiunge che doveva essere ammessa la documentazione sanitaria prodotta in grado di appello, perché si trattava di documenti formati successivamente al deposito del ricorso, o comunque riferibili a strutture pubbliche, e di consulenza tecnica di parte il cui deposito deve essere sempre consentito in ragione dell’assenza di autonomo valore probatorio.
7. Il settimo motivo denuncia la violazione dell’art. 115 proc. civ. per travisamento della prova e addebita alla Corte di appello di avere escluso la natura professionale della malattia senza esaminare la documentazione sanitaria in atti.
8. Nella mancata ammissione dei mezzi istruttori e nella mancata valutazione della documentazione in atti il ricorrente ravvisa anche un omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, denunciato con l’ottavo motivo, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ..
9. La nona censura torna a denunciare la violazione delle norme processuali e sostanziali indicate nella rubrica del quinto motivo e censura il capo della sentenza impugnata che ha accolto la domanda riconvenzionale del Comune senza accertare la natura professionale della patologia, che avrebbe comportato la conservazione dell’intero trattamento retributivo anche dopo il compimento dei primi diciotto mesi di comporto.
10. Con il decimo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli 82 e 83 cod. proc. civ., dell’art. 5 della legge n. 2248/1865, allegato E, degli artt. 3 e 21 septies della legge n. 241/1990, dell’art. 33 dello Statuto Comunale. Sostiene che la delibera della Giunta Comunale, necessaria in base alle previsioni dello Statuto per promuovere il giudizio o per resistere all’azione, era priva di motivazione e, pertanto, andava disapplicata dal giudice con conseguente nullità della procura e inammissibilità della proposta domanda riconvenzionale.
11. Il capo della decisione inerente alla validità della procura è censurato anche con l’undicesimo motivo che denuncia la violazione di plurime disposizioni del d.lgs. n. 165/2001 (artt. 4, da 14 a 17, e 27) e del d.lgs. n. 267/2000 ( artt. 4, 6, 7, 36, 42, 48, 50, 88, 89, 107 e 111), dell’art. 53 della legge n. 383/2000, degli artt. 2,21,22 e 62 dello Statuto Comunale del 2001, dell’art. 2 dello Statuto comunale del 2018, degli artt. 82 e 83 cod. proc. civ., dell’art. 5 della legge n. 2248/1965, allegato E, degli artt. 3 e 21 septeis della legge n. 241/1990 e, riprendendo argomenti già sviluppati nel primo motivo, sostiene che la scelta del legale cui conferire la difesa dell’ente doveva avvenire ad opera di un organo di gestione e non di indirizzo politico.
12. Si collega al motivo che precede la dodicesima censura, che ravvisa la violazione dell’art. 112 proc. civ. nell’omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale il vizio della deliberazione era stato denunciato.
13. Infine il tredicesimo motivo denuncia la violazione dell’art. 2697 civ., degli artt. 115, 116, 420 e 437 cod. proc. civ., dell’art. 150 del d.l. n. 34/2020, dell’art. 38 del CCNL 31.5.2018, perché la contestazione del quantum non poteva essere ritenuta tardiva.
Rileva il ricorrente che si trattava di una mera difesa fondata sulle stesse allegazioni del Comune di (omissis) che, pur avendo dato atto della maturazione del comporto al 12 dicembre 2018 aveva chiesto la restituzione anche degli importi corrisposti nei mesi di ottobre e novembre 2018.
14. Il primo motivo di ricorso è infondato.
In premessa va evidenziato che la sentenza gravata non ha posto in discussione il principio, di carattere generale, della necessaria distinzione fra atti di gestione riservati alle figure dirigenziali ed atti di indirizzo politico- amministrativo di competenza degli organi di governo, principio già valorizzato da questa Corte al fine di escludere che gli atti inerenti alla costituzione, alla gestione ed alla risoluzione dei rapporti di impiego con le amministrazioni pubbliche possano essere, nella normalità e sulla base della disciplina dettata dal d.lgs. n. 165/2001 e dal d.lgs. n. 267/2000, validamente adottati da questi ultimi organi (si rimanda a Cass. n. 31091/2018).
La Corte distrettuale, infatti, per escludere la fondatezza dell’eccezione di incompetenza del Sindaco ad adottare il licenziamento impugnato, ha valorizzato il potere di deroga concesso agli enti locali di piccole dimensioni dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000 che, nel testo modificato dall’art. 29 della legge n. 448/2001 applicabile alla fattispecie ratione temporis, prevede che «Gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo , 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio.».
La disposizione, adottata al chiaro fine di perseguire l’obiettivo del contenimento della spesa del personale, consente, in via eccezionale, di derogare al richiamato principio di carattere generale e richiede, quali condizioni per l’esercizio del potere, l’adozione di «disposizioni regolamentari organizzative» nonché la documentazione annuale del risparmio di spesa, da certificare in sede di approvazione del bilancio.
Il legislatore, anche in ragione della tendenziale temporaneità della deroga, resa evidente dalla prescrizione della certificazione annuale del risparmio attuato, non ha richiesto la previa modifica delle previsioni statutarie, sicché erroneamente il ricorrente invoca gli artt. 21 e 22 dello Statuto e l’art. 7 del d.lgs. n. 267/2000, nella parte in cui prescrive la conformità dei regolamenti alla legge ed allo statuto. Il citato art. 53, infatti, ha una portata derogatoria che si estende a tutte le disposizioni generali dettate dal T.U.E.L. non compatibili con la disciplina speciale, che, lo si ripete, non impone all’ente locale di avvalersi del potere di deroga solo previa modifica delle previsioni statutarie.
Non è qui in discussione la ricorrenza delle condizioni imposte dalla norma speciale e, pertanto, il motivo, che fa solo leva sul mancato rispetto della disciplina di carattere generale, deve essere rigettato.
15. Nel rispetto dell’ordine logico delle questioni vanno esaminate con priorità la terza e la quarta censura, con le quali il ricorrente ripropone l’eccezione di tardività del licenziamento, disattesa dalla Corte distrettuale.
I motivi sono infondati, nella parte in cui fanno leva sulla violazione dell’art. 36, comma 5, del CCNL 21 maggio 2018 per i dipendenti del comparto funzioni locali, ed inammissibili per il resto.
La disposizione contrattuale, dopo aver previsto ai commi da 1 a 3 la conservazione del posto di lavoro per un periodo di diciotto mesi nonché le condizioni alle quali è subordinata la concessione di un ulteriore periodo di eguale durata, al comma 4 stabilisce che «superati i periodi di conservazione del posto previsti dai commi 1 e 2, nel caso che il dipendente sia riconosciuto idoneo a proficuo lavoro, ma non allo svolgimento delle mansioni del proprio profilo professionale, l’ente procede secondo quanto previsto dal DPR n. 171/2011» ed al comma 5 aggiunge che «Ove non sia possibile applicare il comma 4, oppure nel caso in cui il dipendente sia dichiarato permanentemente inidoneo a svolgere qualsiasi proficuo lavoro, l’ente, con le procedure di cui al DPR n. 171/2011, può risolvere il rapporto di lavoro, previa comunicazione all’interessato, entro 30 giorni dal ricevimento del verbale di accertamento medico, corrispondendo, se dovuta, l’indennità di preavviso.».
Il tenore letterale della clausola è chiaro nel circoscrivere l’ambito di applicazione del termine di trenta giorni alle ipotesi, che qui non ricorrono, del dipendente dichiarato permanente inidoneo a svolgere qualsiasi lavoro e dell’impiegato che non possa essere più assegnato alle mansioni del profilo professionale di assunzione né utilizzato per l’espletamento dei compiti propri di altro profilo, secondo la disciplina dettata dal d.P.R. n. 171/2011, art. 7.
Il termine in parola, che non a caso decorre dal ricevimento del verbale di accertamento medico, si riferisce, quindi, al solo licenziamento per sopravvenuta inidoneità psicofisica del dipendente e non a quello per superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro, previsto dallo stesso art. 36 ai commi da 1 a 3.
Il CCNL per il comparto delle funzioni locali, al pari della contrattazionNue intervenuta per altri comparti, disciplina con un’unica disposizione due inte causali di recesso, in linea con l’orientamento consolidato di questa Corte che da tempo ha sottolineato l’ontologica diversità fra licenziamento per superamento del periodo di comporto e licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica (cfr. Cass. n. 15512/2019 e la giurisprudenza ivi richiamata in motivazione). Solo per quest’ultima causale impone all’amministrazione di recedere dal rapporto entro trenta giorni dalla comunicazione dell’inidoneità.
15.1. Nessun termine, invece, è previsto per il recesso motivato dal superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro sicché, in tal caso, la tempestività va valutata dal giudice del merito ed il giudizio deve essere espresso tenendo conto del principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, mentre nel licenziamento disciplinare l’immediatezza del recesso è imposta a garanzia della pienezza del diritto di difesa all’incolpato, nell’ipotesi di superamento del periodo di comporto per malattia «l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un ragionevole spatium deliberandi, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi In tale caso, il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa» (Cass. n. 18960/2020 che richiama Cass. n. 25535/2018 e Cass. n. 7037/2011).
Dal richiamato principio non si è discostata la Corte territoriale ed i motivi, che fanno leva sulla irrilevanza dell’accertamento INAIL ancora in corso e sulla comunicazione del medico competente favorevole alla concessione della proroga prevista dal comma 2 dell’art. 36 CCNL 2018, nella sostanza, al di là della formulazione della rubrica, censurano l’accertamento di fatto riservato al giudice del merito (cfr. Cass. n. 19400/2014 e la cit. Cass. n. 25535/2018).
16. Merita, invece, accoglimento il secondo motivo di ricorso.
Si è già anticipato che l’art. 36 del CCNL di comparto, dopo aver limitato a diciotto mesi il periodo di conservazione del posto di lavoro concesso al dipendente in malattia, al secondo comma aggiunge che «superato il periodo previsto dal comma 1, al dipendente che ne faccia richiesta può essere concesso di assentarsi per un ulteriore periodo di 18 mesi in casi particolarmente gravi » ed al terzo comma precisa che la concessione dell’ulteriore periodo di assenza deve essere preceduta dall’accertamento delle condizioni psico-fisica di salute del dipendente, finalizzato ad escludere che lo stesso si trovi in una situazione di assoluta e permanente inidoneità psico-fisica a svolgere qualsiasi lavoro, situazione che rende applicabile il comma 5 e legittima la risoluzione del rapporto.
Il prolungamento del periodo di comporto è subordinato, dunque, oltre che alla domanda dell’interessato (in questo caso presentata il 9 novembre 2018 e reiterata in date 6 febbraio e 13 maggio 2019), all’accertamento delle ulteriori condizioni della gravità del caso e della permanente idoneità al lavoro, in presenza delle quali, peraltro, non sorge il diritto soggettivo alla protrazione dell’assenza, perché l’amministrazione pubblica non è obbligata ad accogliere l’istanza, ma solo a provvedere sulla stessa e ad attivare il procedimento disciplinato dal comma 3 (cfr. Cass. n. 21192/2018 inerente all’interpretazione dell’analoga disciplina dettata dall’art. 21 del CCNL 1995 per il personale del comparto autonomie locali).
All’esito dell’accertamento l’ente è chiamato ad effettuare una valutazione discrezionale, non arbitraria, degli opposti interessi che vengono in rilievo e, quindi, ad operare il bilanciamento fra l’indubbio interesse del dipendente al prolungamento del periodo di conservazione del posto di lavoro e le esigenze organizzative dell’amministrazione, che potrebbero essere pregiudicate dal protrarsi dell’assenza, specie nei casi in cui quest’ultima, in ragione della posizione ricoperta dal dipendente e della complessiva dotazione di personale disponibile, finirebbe per incidere sulla capacità dell’ente di provvedere alla cura degli interessi pubblici ed all’erogazione dei servizi di sua competenza.
Si tratta, dunque, di una valutazione discrezionale che nell’impiego pubblico contrattualizzato, ove vengono in rilievo anche interessi legittimi di diritto privato (cfr. fra le tante più recenti Cass. n. 5546/2020), va espressa tenendo conto dei principi di imparzialità, trasparenza, efficienza ed economicità di cui all’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001, attuativo dell’art. 97, comma 2, Cost., nonché dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., i quali in materia contrattuale enunciano un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., ed impongono a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra ( cfr. Cass. S.U. n. 28056/2008).
16.1. Corollario del principio enunciato quanto ai criteri che ispirano la valutazione discrezionale è che di quella valutazione l’amministrazione deve dare conto allorquando, come nella fattispecie, pervenga alla decisione di rigettare l’istanza e di intimare il licenziamento.
L’obbligo della motivazione non discende in tal caso dall’art. 3 della legge n. 241/1990, applicabile agli atti amministrativi e non a quelli di gestione del rapporto di lavoro privatizzato, bensì si fonda, oltre che sulla necessità di assicurare il rispetto dei principi sopra richiamati, che implicano l’esteriorizzazione delle ragioni della scelta, anche sul novellato testo dell’art. 2 della legge n. 604/1966, che impone al datore di lavoro di specificare con la comunicazione del licenziamento i motivi che l’hanno determinato.
Questa Corte, affermata l’applicabilità del richiamato art. 2 anche al licenziamento intimato ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., ha precisato che il contenuto motivazionale dell’atto di recesso si modella diversamente a seconda del tipo di comporto che viene in rilievo e deve essere tale da evidenziare le ragioni del superamento in relazione alla disciplina contrattuale applicabile ( cfr. Cass. n. 21042/2018 e Cass. n. 5752/2019).
Il principio, affermato per il rapporto alle dipendenze di privati ma estensibile anche all’impiego pubblico contrattualizzato, implica che ogniqualvolta la contrattazione collettiva preveda un periodo minimo di conservazione ma ne consenta anche il prolungamento in presenza di determinate condizioni, il motivo del recesso è dato, non dal solo compimento del periodo minimo, ma anche dalla ritenuta insussistenza dei presupposti per l’estensione, che va, quindi, esplicitata e comunicata al prestatore.
Ha, quindi, errato la Corte territoriale nell’affermare che l’obbligo della motivazione fosse stato assolto attraverso il solo richiamo alla durata dell’assenza, al periodo indicato nell’art. 36, comma 1, del CCNL 2018 ed al parere dell’ARAN 531/2011.
17. Sono inammissibili i motivi dal quinto al nono perché tutti, attraverso la deduzione solo apparente di errores in procedendo e in iudicando, si risolvono in una critica alla valutazione delle risultanze processuali espressa dalla Corte territoriale nell’escludere la natura professionale della malattia diagnosticata al ricorrente e la responsabilità del datore di lavoro quanto alla sua insorgenza.
E’ consolidato da tempo l’orientamento di questa Corte secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo.
Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).
Nel caso di specie la Corte distrettuale ha dato ampio conto delle ragioni per le quali, alla luce della documentazione acquisita e delle testimonianze assunte in grado di appello, dovevano essere esclusi il disagio organizzativo, il sovraccarico esorbitante di lavoro, la condizione di stress denunciati dall’appellante sicché non si configurano né il vizio motivazionale né il denunciato omesso esame di fatti decisivi per il giudizio.
17.1. Va ricordato al riguardo che, all’esito della riformulazione dell’art. 360 5 cod. proc. civ. ad opera del d.l. n. 83/2012, le Sezioni Unite di questa Corte a partire da Cass. S.U. n. 8053/2014 (negli stessi termini fra le tante Cass. S.U. n. 34476/2019; Cass. S.U. n. 9558/2018; Cass. S.U. n. 33679/2018) hanno evidenziato che:
a) il novellato testo dell’art. 360, 5, cod. proc. civ. ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo;
b) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie;
c) neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma;
d) nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali;
e) tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione
17.2. E’ stato anche affermato, ed al principio va data qui continuità, che una censura relativa all’errata applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può essere formulata per lamentare un’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice d’appello, perché la violazione può essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. fra le più recenti Cass. n. 18092/2020; Cass. n. 1229/2019, Cass. n. 23940/2017, Cass. n. 27000/2016).
La censura di violazione delle norme processuali predette non può, dunque, legittimare una “trasformazione” in error in procedendo del precedente vizio di motivazione per “insufficienza od incompletezza logica”, vizio non più denunciabile in sede di legittimità (Cass. n. 23940/2017).
18. Il decimo motivo, con il quale si reitera la tesi dell’inammissibilità della domanda riconvenzionale in ragione del preteso difetto di motivazione della delibera 2 del 2020, non può trovare accoglimento per l’assorbente ragione che, esclusa l’inesistenza della procura, per i giudizi instaurati all’esito della modifica dell’art. 182 cod. proc. civ., il difetto di rappresentanza, di assistenza e di autorizzazione non determina inammissibilità della costituzione, ma rende solo applicabile il secondo comma del richiamato art. 182 cod. proc. civ., che consente in ogni stato e grado del giudizio la sanatoria del vizio, con efficacia retroattiva.
19. L’undicesimo motivo è infondato per le ragioni già indicate al punto 14 ed il dodicesimo motivo è inammissibile per l’assorbente ragione che il vizio di omessa pronuncia non è configurabile in relazione a questioni processuali ( fra le tante Cass. n. 10422/2019; Cass. n. 25154/2018; Cass. n. 6174/2018).
20. E’, invece, fondato il tredicesimo motivo.
Il principio di non contestazione, con riguardo ai conteggi elaborati ai fini della quantificazione del credito oggetto della domanda, impone la distinzione tra la componente fattuale e quella normativa dei calcoli, nel senso che è irrilevante la non contestazione attinente all’interpretazione della disciplina legale o contrattuale della quantificazione, appartenendo al potere-dovere del giudice la cognizione di tale disciplina, mentre rileva quella che ha ad oggetto i fatti da accertare nel processo e non la loro qualificazione giuridica (cfr. Cass. n. 20998/2019).
Nella specie, pertanto, non era impedito all’appellante contestare in appello la quantificazione delle somme pretese in restituzione sul rilievo che la richiesta aveva riguardato anche periodi in relazione ai quali l’indebito non poteva essere configurato, non essendo ancora spirato il primo periodo di comporto.
Si tratta, infatti, di una mera difesa attinente alla insussistenza del diritto fatto valere in giudizio, che il giudice era tenuto ad accertare anche d’ufficio.
21. In via conclusiva vanno accolti il secondo ed il tredicesimo motivo di ricorso e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame attenendosi ai principi di diritto enunciati nei punti 16.1 e 20.
Alla Corte territoriale è demandato anche il regolamento delle spese del giudizio di cassazione.
22. Non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, per il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo ed il tredicesimo motivo e rigetta gli altri motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d’Appello di Firenze in diversa composizione alla quale demanda anche di provvedere al regolamento delle spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. n. 196 del 2003 andranno omessi in caso di diffusione le generalità e gli altri dati identificativi del ricorrente.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 16 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2023.