Responsabilità civile del componente di un’associazione a delinquere: la responsabilità è in re ipsa? (Corte di Cassazione, Sezione III Civile, Sentenza 15 febbraio 2022, n. 4908).

REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 

SEZIONE TERZA CIVILE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente

Dott. SCODITTI Enrico – Rel. Consigliere

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 35691/2019 proposto da:

Piemontese Mario, elettivamente domiciliato in Roma Via (OMISSIS) (OMISSIS) 1, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) Domenico e rappresentato e difeso dall’avvocato (OMISSIS) Giuseppe Antonio;

– ricorrente –

contro

Zoli Paola, elettivamente domiciliato in Roma Viale (OMISSIS) 14 presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS) Franco che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati (OMISSIS) Maurizio e (OMISSIS) Pietro;

– controricorrente

ricorrente incidentale –

Agenzia Delle Entrate, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso Avvocatura Generale Dello Stato, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2832/2019 della CORTE D’APPELLO dì MILANO, depositata il 26/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/12/2021 dal consigliere Dott. ENRICO SCODITI;

udito l’Avvocato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA

Fatti di causa

Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale dì Vigevano dispose il rinvio a giudizio, fra gli altri, dì Mario Piemontese e Paola Zoli per una serie dì reati fra cui l’associazione per delinquere, facente capo a Silvano Francesco Lombardo, per essersi associati allo scopo dì commettere una serie indeterminata dì reati dì frode fiscale al fine dì conseguire indebiti rimborsi dì crediti IVA.

Sì costituì parte civile l’Agenzia delle Entrate chiedendo il risarcimento del danno patrimoniale nella misura dì Euro 602.405,61, pari alla differenza fra i rimborsi erogati alle società facenti capo al Lombardo (Euro 2.793.0 39,65) e quanto recuperato a seguìto dell’escussione delle polizze fideiussorie (Euro 2.190.634,04), nonché del danno non patrimoniale nella misura di Euro 50.000,00.

Il Tribunale ritenne gli imputati responsabili del reato dì cui all’art. 416 cod. pen. e li condannò al risarcimento del danno non patrimoniale nella misura di Euro 50.000,00; escluse il danno patrimoniale essendo stato enunciato nei capi di imputazione il conseguimento dì indebiti rimborsi IVA solo per la delineazione delle finalità dell’associazione per delinquere e non quale reato fine.

Proposti appelli, la Corte d’appello di Milano dichiarò l’estinzione del reato per prescrizione e, confermando per il resto le statuizioni civili, condannò gli imputati in solido al risarcimento del danno patrimoniale nella misura dì Euro 602.405,61.

Proposero ricorso per cassazione Mario Piemontese e Paola Zoli e questa Corte, con sentenza n. 36794 del 2017 annullò la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili, con rinvio al giudice civile, con rinvio al giudice civile, osservando che non era stata fatta applicazione del principio secondo cui «all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, certamente non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, a meno che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili.

In tal caso i motivi di impugnazione proposti dall’imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendo essere confermata la condanna al risarcimento del danno sulla base della mancata prova dell’innocenza dell’imputato ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 2».

2. Riassunto il giudizio dall’Agenzia delle Entrate innanzi al giudice civile, con sentenza di data 26 giugno 2019 la Corte d’appello di Milano rigettò gli appelli proposti da Piemontese e Zoli ed accolse parzialmente quello proposto dall’Agenzia delle Entrate, condannando Piemontese e Zoli al risarcimento del danno patrimoniale nella misura di Euro 602.405,61, oltre rivalutazione e interessi.

Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, premessa la partecipazione del Piemontese, direttore dell’Agenzia delle Entrate di Abbiategrasso, all’associazione gravitante intorno alle società facenti capo al Lombardo, che, quanto alla Zoli, avvocato civilista, la sua partecipazione al sodalizio criminoso si ricavava dalle seguenti circostanze:

– la Zoli aveva convinto la madre e la sorella, prive di ogni competenza specifica a rivestire cariche societarie, ad accettare cariche nelle società controllate dal Lombardo fungendo da mere prestanome;

– nelle conversazioni telefoniche, intercettate, avvenute nel periodo dal luglio al settembre 2005, riportate nella sentenza del Tribunale, il Lombardo informava dello sviluppo delle indagini la Zoli, la quale mostrava piena consapevolezza delle attività di falsa fatturazione, ed in particolare nella conversazione del 13 luglio 2005 la Zoli, commentando l’esito negativo di una recente verifica da parte della Guardia di finanza, giustificava ciò con il fatto che “quei quattro mammalucchi” dei militari “non sapevano il disegno sottostante”, mentre nella conversazione del 29 settembre 2005 la Zoli si era offerta di sostituire la madre in una convocazione presso l’agenzia Unicredit, utilizzando espressioni da un lato confermanti il ruolo di prestanome della congiunta, dall’altro dimostranti la perfetta conoscenza delle vicende societarie;

– privo di giustificazione era rimasto il fatto di essere stata trovata la Zoli nella disponibilità di una polizza fideiussoria rilasciata in favore della Midal s.r.I., una delle società utilizzate per l’attività illecita.

Aggiunse la corte territoriale che non era mai stato messo in discussione, né con l’atto di appello né con il ricorso per cassazione, il dato della differenza fra l’importo degli indebiti rimborsi fiscali e quello ricavato dalla escussione delle fideiussioni da parte della Agenzia delle Entrate.

Aggiunse ancora che il danno prodotto dai reati fine non era eziologicamente estraneo alla consumazione di quello associativo (Cass. n. 4380 del 2015) perché le condotte associative avevano garantito le condizioni per la commissione dei reati fine, a prescindere dalla responsabilità dell’imputato per tali reati, sussistendo il rapporto di causalità anche quando il fatto reato, pur non avendo determinato direttamente il danno, avesse tuttavia prodotto uno stato tale di cose senza cui il danno non si sarebbe verificato (Cass. n. 11295 del 2015), sicché la responsabilità per il danno derivante da reato comprendeva anche i danni mediati e indiretti costituenti effetto normale dell’illecito secondo il criterio della regolarità causale (Cass. n. 23046 del 2010).

Osservò infine che nuova, e pertanto non esaminabile, era l’eccezione della Zoli, sollevata per la prima volta in sede di riassunzione, secondo cui, dovendo l’Agenzia delle Entrate rispondere ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. del fatto illecito dei suoi dipendenti, dal risarcimento doveva essere detratta la quota corrispondente alla responsabilità del Piemontese.

3. Ha proposto ricorso per cassazione Mario Piemontese sulla base di tre motivi.

Ha proposto, con il controricorso, ricorso incidentale Paola Zoli sulla base di sette motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate ad entrambi i ricorsi.

Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte.

E’ stata depositata memoria di parte.

Ragioni della decisione

1. Muovendo dal ricorso principale, con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 40, 41, 416, cod. pen., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Osserva la parte ricorrente che il danno patrimoniale si era consumato molto tempo prima (anni 2000 e 2002) della adesione al programma criminoso da parte del Piemontese, adesione sempre contestata e che a tutto concedere sarebbe avvenuta solo a partire dal 2004, ed in luoghi (le agenzie di Rimini e Milano, ove erano stati erogati gli indebiti rimborsi IVA) non rientranti nella sfera di competenza dell’Agenzia delle Entrate di Abbiategrasso in cui egli operava.

Aggiunge che per attribuire all’associato la responsabilità per i reati fine occorre la strumentalità della condotta dell’associato rispetto allo specifico reato, e cioè che le sue condotte abbiano prodotto o meno uno stato tale di cose senza cui il danno non si sarebbe verificato.

Osserva quindi, rispetto alle erogazioni avvenute presso gli uffici di Rimini e Milano, che nessuno contributo causale poteva apportare il Piemontese e che la Corte d’appello non aveva neppure spiegato quali sarebbero stati i reati fine che avrebbe cagionato il danno, dato che, come si legge nella sentenza del Tribunale, «gli indebiti rimborsi IVA non sono stati neppure contestati dal PM come reato ma come enunciazione di una delle finalità dell’associazione a delinquere e non già addebitati agli imputati come reato fine».

2. Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 2043, 2055 e 2697 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Osserva la parte ricorrente che al Piemontese è stata attribuita la responsabilità risarcitoria per un evento dannoso rispetto al quale non poteva apportare un contributo causale, non potendo né autorizzare l’utilizzo di fideiussioni non regolari né omettere gli accertamenti dovuti non riferibili all’Agenzia delle Entrate di Abbiategrasso.

3. Con il terzo motivo denuncia l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.

Osserva il ricorrente che il giudice di merito ha omesso l’esame del fatto decisivo rappresentato dal non avere l’Agenzia delle Entrate di Abbiategrasso erogato i due indebiti rimborsi IVA, non oggetto di recupero, produttivi del danno patrimoniale di Euro 602.405,65.

4. I motivi, da trattare congiuntamente, sono infondati.

Secondo la giurisprudenza delle sezioni penali di questa Corte, la responsabilità per il danno derivante da reato presuppone l’accertamento di un adeguato rapporto di causalità tra fatto ed evento, rapporto che si verifica quando il fatto, pur non determinando di per sé quel determinato evento, abbia tuttavia determinato uno stato tale di cose che senza di esse il danno non si sarebbe verificato (Cass. n. 7642 del 1985 relativa ad un’associazione per delinquere in tema di sostanze stupefacenti; si vedano più di recente Cass. n. 46084 del 2014, n. 11295 del 2015).

Si è così affermato che ove un reato si inquadri nel piano criminoso di una associazione per delinquere, la vittima del reato fine è legittimata a costituirsi parte civile sia per il reato fine che per quello associativo in quanto danneggiata da quest’ultimo (Cass. n. 31295 del 2018, n. 4380 del 2015).

Il presupposto è che la responsabilità per il danno derivante da reato comprende anche i danni mediati ed indiretti che costituiscano effetti normali dell’illecito secondo il criterio della cosiddetta regolarità causale (Cass. n. 4701 del 2017, n. 23046 del 2010).

Quanto al nesso eziologico fra reato associativo e danno riconducibile al reato fine va richiamata la motivazione di Cass. n. 4380 del 2018: «i singoli reati fine (per i quali le persone offese sono legittimate a costituirsi parti civili) proprio perché costituiscono il fine dell’associazione criminosa, sono sicuramente agevolati (e, quindi, sono maggiormente pericolosi) – sia nella riuscita sia nell’impunità – dall’essere commessi nell’ambito di una struttura associativa: ed invero, proprio sul piano naturalistico, una cosa è un reato commesso – una tantum – in concorso fra due o più persone, altra e ben diversa cosa, è il reato commesso da agenti che, in quanto facenti parte di una associazione, ricoprono ruoli in cui si “specializzano” (il che significa maggiore efficienza e minori rischi), sono indirizzati sul delitto da compiere (magari ideato ed organizzato da altri che rimangono nell’ombra: i cd. basisti), ricevono una copertura logistica dopo la commissione del crimine, non si devono occupare di smerciare gli oggetti rubati o rapinati.

Distinguere, in tali fattispecie, fra danno diretto (derivante dal solo reato fine) e danno indiretto (derivante dal reato associativo) per far discendere la conseguenza che solo per il primo è ammessa la costituzione di parte civile e non per il secondo, non appare corretto proprio perché si finirebbe per non considerare l’effetto moltiplicatore (in termini di gravità del reato) e, pertanto, diretto, che deriva dalla circostanza che quel reato fine è stato commesso nell’ambito di un’associazione.

Il danno, quindi, proprio perché i due reati risultano collegati (nel senso che, giova ribadirlo, il reato associativo moltiplicando la possibilità di riuscita del reato fine lo fa diventare ancora più grave: arg. ex art.133 cod. pen.) non può che derivare – in modo diretto – da entrambi sicché la parte offesa deve ritenersi legittimata ad esercitare l’azione civile per l’uno e per l’altro».

Diversamente da quanto si afferma nel motivo di ricorso, e cioè che bisognerebbe guardare non all’associazione, ma alla condotta del singolo associato che sia stata strumentale alla verificazione dei reati fine, del danno patrimoniale derivante dai reati fine risponde il componente dell’associazione per delinquere per il sol fatto della partecipazione all’associazione.

Stante l’efficienza eziologica dell’associazione ai fini della verificazione del danno, il nesso rilevante non è quello della porzione di contributo dell’associato all’attività associativa che sarebbe singolarmente strumentale ai fini della ulteriore condotta illecita, ma è quello della mera partecipazione all’associazione, posto che ciò che rileva è la complessiva strumentalità della struttura associativa, di cui il soggetto è parte, alla realizzazione di determinati comportamenti illeciti.

L’eziologia rilevante è quella fra l’esistenza dell’associazione ed il danno conseguente al reato fine, per cui è il fatto della partecipazione all’associazione a rilevare ai fini dell’ascrizione dell’imputazione del nesso causale.

Nel motivo si afferma che un reato fine non sarebbe stato oggetto di contestazione nel processo penale, essendo stato l’indebito rimborso IVA enunciato quale finalità dell’associazione e non quale autonoma fattispecie criminosa.

La circostanza non impedisce di arrivare alle medesime conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza relativa al rapporto fra reato associativo e reato fine.

Per replicare alla censura vanno anzi spesi propri gli argomenti di tale giurisprudenza.

Elemento costitutivo della fattispecie dell’associazione per delinquere non è la condotta integrante la finalità dell’associazione (il reato fine), ma il fatto della permanenza del vincolo associativo, con il relativo programma consapevolmente esteso ad un generico programma delittuoso, e la comune predisposizione di mezzi e attività. Indipendentemente dalla circostanza che nel processo penale sia stato contestato o non il reato fine, è sufficiente per stabilire il nesso di causalità ai fini della responsabilità civile fra il danno patrimoniale ed il reato associativo il perfezionamento della fattispecie di quest’ultimo e la circostanza degli indebiti rimborsi IVA grazie a dichiarazioni fraudolente, suscettibili di qualificazione in termini di fattispecie criminose.

Sulla scorta della giurisprudenza sopra richiamata, del danno patrimoniale corrispondente agli indebiti rimborsi risponde il componente dell’associazione per delinquere per il sol fatto della partecipazione all’associazione.

Non rileva pertanto la circostanza che gli indebiti rimborsi non sarebbero provenuti dall’ufficio cui era addetto il ricorrente, posto che l’elemento rilevante ai fini della responsabilità civile è il fatto della partecipazione all’associazione per delinquere.

Ne discende l’inammissibilità della denuncia di vizio motivazionale di cui al terzo motivo, per l’assenza di decisività del fatto storico.

Per il resto nel primo motivo, dove si evidenzia l’ingresso del ricorrente nell’associazione in epoca successiva alla verificazione del danno patrimoniale, la censura ricade nel giudizio di fatto, non sindacabile nella presente sede di legittimità.

4.1. Va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto:

«è civilmente responsabile del danno patrimoniale cagionato all’Amministrazione finanziaria dagli indebiti rimborsi IVA il partecipante ad una associazione per delinquere, finalizzata alla commissione di attività fraudolente per la percezione di tali rimborsi, per il solo fatto di partecipare all’associazione».

5. Passando al ricorso incidentale, con il primo motivo si denuncia nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente in via incidentale che il giudice di appello ha acriticamente recepito, con una motivazione per relationem, la motivazione della sentenza del Tribunale quanto al riconoscimento della responsabilità della Zoli, ricadendo nel medesimo vizio rilevato dal giudice di legittimità.

5.1. Il motivo è infondato.

Non ricorre una ipotesi di motivazione per relationem, che integrerebbe secondo l’assunto della ricorrente un caso di motivazione inesistente, avendo il giudice di merito fornito le ragioni per le quali la Zoli dovesse ritenersi partecipe del sodalizio criminoso.

Che la sentenza di appello sia fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, della sentenza di primo grado è ipotesi perfino contemplata dalla legge processuale (art. 348-ter cod. proc. civ.).

6. Con il secondo motivo si denuncia nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., e comunque omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che il giudice di appello, limitandosi ad esaminare il materiale probatorio riportato nella sentenza del Tribunale, ha omesso di acquisire il fascicolo d’ufficio del primo grado, contenente i seguenti elementi decisivi per il giudizio:

1) l’intercettazione della conversazione del 13 luglio 2005, la quale, se esaminata nella sua integralità, evidenzia che le frasi riportate si collocano dopo la cessazione della consumazione del delitto associativo e attengono al ruolo professionale di avvocato civilista della Zoli;

2) la testimonianza di Lamberto (OMISSIS), dipendente di Unicredit Banca, in base alla quale la dichiarazione di solvibilità giunse dall’agenzia di Abbiategrasso, con la quale la Zoli non aveva avuto alcun collegamento, e nelle occasioni in cui il Lombardo si recava presso la filiale ove lavorava il teste, la Zoli non era mai stata presente;

3) la testimonianza di Giovanna (OMISSIS), ex dipendente della Agenzia delle Entrate di Abbiategrasso, in base alla quale tutti i crediti indebitamente erogati erano stati recuperati mediante l’escussione delle fideiussioni;

4) la testimonianza di Andrea (OMISSIS), dipendente della Agenzia delle Entrate di Abbiategrasso, in base alla quale nelle polizze era presente una clausola che consentiva di utilizzare un “avanzo” della somma garantita in più rispetto a quella direttamente garantita e che, fatta eccezione per l’Istituto Finanziario Meridionale, le polizze fideiussorie garantivano ampiamente il rimborso IVA;

5) la testimonianza di Dario (OMISSIS), dipendente della Agenzia delle Entrate di Abbiategrasso, il quale, con riferimento ai rimborsi chiesti all’ufficio di Abbiategrasso, ha dichiarato di non ricordare esattamente se tutti i rimborsi fossero stati sospesi o se nessun rimborso fosse stato pagato;

6) la testimonianza di Roberto (OMISSIS), in base alla quale le polizze garantivano i rimborsi, tutelando il danno erariale.

7. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 384, comma 2, cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che il giudice di merito ha omesso di considerare che la conversazione telefonica del 13 luglio 2005 è successiva alla consumazione del reato associativo (mentre nessuna delle condotte consumate dal 2000 al gennaio 2005 risulta ascrivibile alla Zoli) e che la conoscenza degli illeciti appresa a seguito della conversazione è connaturata al mandato professionale di assistenza civilistico-tributaria.

Aggiunge che la sussistenza del danno patrimoniale risulta esclusa dalle testimonianze di cui al secondo motivo e che inoltre, non sussistendo reati fine da prendere a parametro, il giudice di appello non ha preso posizione circa l’eccezione avente ad oggetto la mancanza di condotte singolarmente attribuibili e che abbiano determinato il pregiudizio.

8. Con il quarto motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che, contrariamente a quanto affermato dalla corte territoriale, nel ricorso per cassazione risulta contestato il quantum della richiesta dell’Agenzia delle Entrate, ed in particolare è stato osservato che difettava la prova della mancata escussione delle polizze fideiussorie con riferimento al rimborso IVA ottenuto da Commerciale Italia (anno d’imposta 2000) ed a quello ottenuto da Covital s.r.l. (anno d’imposta 2002), laddove invece il giudice di merito si era avvalso di tabelle riassuntive contenute in un documento di parte dell’Agenzia delle Entrate. Aggiunge che nell’atto di appello (pag. 13) era stato comunque scritto «…contestando fin da ora il quantum riconosciuto dal collegio, ritenuto eccessivo..».

9. Il quarto motivo, da esaminare prioritariamente, è infondato.

Va premesso che la riassunzione della causa – a seguito di cassazione con rinvio della sentenza – dinanzi al giudice di rinvio instaura un processo chiuso, nel quale è preclusa alle parti, tra l’altro, ogni possibilità di proporre nuove domande, eccezioni, nonché conclusioni diverse, salvo che queste, intese nell’ampio senso di qualsiasi attività assertiva o probatoria, siano rese necessarie da statuizioni della sentenza della Cassazione.

Conseguentemente, nel giudizio di rinvio non possono essere proposti dalle parti, né presi in esame dal giudice, motivi di impugnazione diversi da quelli che erano stati formulati nel giudizio di appello conclusosi con la sentenza cassata e che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello stesso gravame e, dall’altro, la formazione del giudicato interno (fra le tante da ultimo Cass. n. 5137 del 2019).

E’ pur vero che tale principio di diritto deve essere contemperato con l’autonomia strutturale e funzionale che caratterizza il giudizio in sede civile conseguente alla cassazione della sentenza penale, autonomia riconosciuta dalla giurisprudenza recente di questa Sezione (è sufficiente rammentare Cass. n. 22520 del 2019) e che ha trovato autorevole conferma nelle Sezioni Unite Penali di questa Corte (Cass. sez. U. pen. n. 22065 del 2021).

Con riferimento però alla quantificazione del danno, che ha costituito materia di accertamento in sede penale, deve ritenersi che la controversia risulta delimitata dall’attività assertiva o probatoria svoltasi prima del giudizio di cassazione e dai motivi dell’atto di appello.

Per ciò che concerne il danno patrimoniale, allo scopo di infirmare quanto affermato dalla corte territoriale circa il carattere non controverso della differenza fra l’importo degli indebiti rimborsi fiscali e quello ricavato dalla escussione delle fideiussioni da parte della Agenzia delle Entrate, la ricorrente ha richiamato il contenuto del ricorso per cassazione.

Il carattere chiuso del processo, limitatamente alla quantificazione del danno patrimoniale, preclude di conferire rilievo ad attività assertive o motivi di impugnazione che siano successivi al giudizio di appello.

Né la preclusione può essere superata con quanto evidenziato al termine del quarto motivo, ove si afferma che nell’atto di appello (pag. 13) era stato comunque scritto «…contestando fin da ora il quantum riconosciuto dal collegio, ritenuto eccessivo..».

Il quantum riconosciuto dal collegio in primo grado riguardava il danno non patrimoniale, non quello patrimoniale.

Resta pertanto ferma la statuizione di non sussistenza di controversia in ordine al danno patrimoniale nei termini in cui è stato liquidato dal giudice di appello.

Alla luce del motivo di censura va soltanto corretta la motivazione nella parte in cui esclude che il ricorso per cassazione abbia attinto la questione del danno patrimoniale, ma trattasi di profilo che non tocca il dispositivo posta l’irrilevanza, alla luce di quanto si è detto, del motivo di impugnazione in sede di legittimità.

10. Il secondo motivo è inammissibile.

Con riferimento alla questione del danno patrimoniale la censura è priva di decisività in quanto inidonea ad incidere sulla statuizione secondo cui non risulta controverso il dato della differenza fra l’importo degli indebiti rimborsi fiscali e quello ricavato dalla escussione delle fideiussioni da parte della Agenzia delle Entrate.

Quanto invece al giudizio di fatto di appartenenza della Zoli al sodalizio criminoso, ed in particolare le circostanze che il giudice di merito avrebbe omesso di esaminare per non avere disposto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio (sub 1 e 2 nel motivo), va osservato quanto segue.

Benché l’art. 347, comma 3, cod. proc. civ. (il cancelliere «richiede la trasmissione del fascicolo d’ufficio al cancelliere del giudice di primo grado») sia norma applicabile al giudizio di appello che consegue al giudizio di primo grado, e l’art. 126 disp. att. cod. proc. civ. («il cancelliere del giudice davanti al quale la causa è riassunta deve immediatamente richiedere il fascicolo d’ufficio al cancelliere del giudice che ha precedentemente conosciuto della causa») riguarda vicende che si svolgono prima del procedimento di appello, come si evince anche dalla collocazione della disposizione prima del capo III dedicato all’appello, nella giurisprudenza di questa Corte è emerso il principio di diritto secondo cui il giudice del rinvio, dinanzi al quale la causa sia riassunta a norma dell’art. 392 cod. proc. civ., ove rilevi che la sua cancelleria abbia omesso di richiedere il fascicolo d’ufficio, come prescritto dall’art. 126 disp. att. cod. proc. civ., la cui mancanza sia rilevante, avendo la parte fatto riferimento ad un atto in esso presente, deve ordinarne l’acquisizione d’ufficio, non potendo altrimenti trarne conseguenze negative a carico della parte (Cass. n. 4759 del 2014 – cfr. anche Cass. n. 10123 del 2011).

Si è tuttavia più di recente precisato che l’acquisizione del fascicolo d’ufficio di primo grado, ai sensi dell’art. 347 cod. proc. civ., non costituisce condizione essenziale per la validità del giudizio d’appello, con la conseguenza che la relativa omissione non determina un vizio del procedimento o della sentenza di secondo grado, bensì, al più, il vizio di difetto di motivazione, a condizione che venga specificamente prospettato che da detto fascicolo il giudice d’appello avrebbe potuto o dovuto trarre elementi decisivi per la decisione della causa, non rilevabili “aliunde” ed esplicitati dalla parte interessata (Cass. n. 20631 del 2018, n. 9498 del 2019).

Le circostanze indicate sub 1) e sub 2) nel secondo motivo sono dunque suscettibili di denuncia di vizio motivazionale, cagionato dalla mancata acquisizione del fascicolo d’ufficio, alla condizione che nel giudizio di rinvio la parte abbia fatto riferimento alle dette circostanze quali fatti decisivi, in modo da far insorgere l’obbligo del giudice di disporre l’acquisizione del fascicolo.

Il motivo, quale omesso esame di fatto decisivo e controverso, è inammissibile in via assorbente ai sensi dell’art. 348-ter, ultimo comma, cod. proc. civ. per essere la sentenza di appello, sul punto della partecipazione della Zoli alla associazione per delinquere, fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, della sentenza di primo grado.

In via ulteriore il motivo sarebbe anche inammissibile perché, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ., la ricorrente ha omesso di indicare specificatamente se abbia fatto riferimento alle dette circostanze innanzi al giudice del rinvio.

E’ appena il caso di aggiungere che quest’ultima ragione di inammissibilità attinge il motivo anche nella parte relativa al danno patrimoniale, per il quale in via assorbente è stato rilevato quanto sopra.

11. Il terzo motivo è infondato.

Quanto alla partecipazione della Zoli alla struttura associativa la censura inerisce al giudizio di fatto, come tale non sindacabile in sede di legittimità, e dunque è inammissibile.

Ove si ritenga di qualificare la censura nei termini del vizio motivazionale, l’inammissibilità deriverebbe dall’art. 348- ter, ultimo comma, cod. proc. civ. per essere sul punto la sentenza di appello fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, della sentenza di primo grado.

Anche quanto all’esistenza del danno patrimoniale la censura rifluisce nel giudizio di fatto, ma assorbente rispetto a tale vizio è la ratio decidendi sul carattere non controverso del quantum.

Per la restante parte del motivo la censura è infondata e si rinvia sul punto all’esame dei motivi del ricorso principale.

12. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 392 e 394 cod. proc. civ., 622 cod. proc. pen., 1223, 2043, 2055, 2059 e 2697 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che, derivando il preteso danno patrimoniale non da un (inesistente) reato fine ma da indebiti rimborsi IVA, manca l’accertamento del nesso di causalità con tali pretesi indebiti, ed in particolare manca la prova del nesso eziologico fra la responsabilità della Zoli quale partecipe al sodalizio criminoso ed il danno patrimoniale.

12.1. Il motivo è infondato per le ragioni indicate a proposito dell’esame dei motivi del ricorso principale.

13. Con il sesto motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che erroneamente è stata ritenuta nuova l’eccezione sollevata ai sensi dell’art. 2049 perché nell’atto di appello era stato affermato che le singole responsabilità dovevano essere suddivise pro quota e nel ricorso per cassazione era stata impugnata la condanna della Zoli «al risarcimento genericamente in via solidale con tutti gli altri imputati».

13.1. Il motivo è infondato.

Stante il carattere chiuso del giudizio in ordine alla liquidazione del danno, quanto affermato nel ricorso per cassazione ricade nella preclusione.

La ricorrente sostiene che l’eccezione ai sensi dell’art. 2049 sarebbe integrata dall’istanza nell’atto di appello di suddivisione delle responsabilità pro quota.

Tale istanza concerne però gli altri debitori solidali, mentre l’eccezione, ritenuta tardiva dal giudice di appello, riguarda il creditore, al quale, sotto le spoglie della responsabilità ai sensi dell’art. 2049 per il fatto del proprio dipendente, si oppone in realtà il concorso del medesimo creditore nella causazione del danno ai sensi dell’art. 1227, comma 1, cod. civ.. In tali sensi l’eccezione non risulta sollevata nell’atto di appello, secondo quanto indicato nel motivo.

14. Con il settimo motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ..

Osserva la ricorrente che l’Agenzia delle Entrate di Abbiategrasso non ha erogato i rimborsi IVA oggetto del contendere, né quello di Euro 232.405,61 per l’anno fiscale 2000 a Commerciale Italia s.r.I., né quello di Euro 370.000 per l’anno fiscale 2002 a Covital s.r.I., come si evince dalla nota di chiarimenti resa dal direttore dell’Agenzia delle Entrate di Abbiategrasso, Marco Boscariol, elaborata in sede di testimonianza all’udienza dibattimentale del 10 marzo 2012 ed ignorata dalla corte territoriale.

14.1 II motivo è inammissibile.

La censura è priva di decisività in quanto inidonea ad incidere sulla statuizione secondo cui non risulta controverso il dato della differenza fra l’importo degli indebiti rimborsi fiscali e quello ricavato dalla escussione delle fideiussioni da parte della Agenzia delle Entrate. Se poi si intende attribuire la decisività del fatto al profilo del nesso eziologico, vale quanto osservato a proposito del quinto motivo (che rinvia alle osservazioni sul ricorso principale).

Peraltro non è illustrata in modo comprensibile la decisività della circostanza, la quale non esclude che altri uffici possano avere erogato i rimborsi indebiti, nel quadro delle attività svolte dal sodalizio criminoso.

15. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 – quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P. Q. M.

Rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale.

Condanna Mario Piemontese al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Condanna Paola Zoli al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il giorno 13 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria, oggi 15 febbraio 2022.

SENTENZA – copia non ufficiale -.