REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SECONDA SEZIONE PENALE
Composta da:
SERGIO BELTRANI Presidente
IGNAZIO PARDO
PIERLUIGI CIANFROCCA
GIUSEPPE COSCIONI
GIOVANNI ARIOLLI Relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(omissis) (omissis) nata a (omissis) il xx/xx/19xx;
avverso la sentenza del 13/04/2023 della CORTE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. GIOVANNI ARIOLLI;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott.ssa MARIAEMANUELA GUERRA, la quale ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
Ricorso trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell’art. 23, comma 8, D.L. n.137/2020 e del successivo art. 8 D.L. 198/2022.
RITENUTO IN FATTO
(omissis) (omissis) a mezzo del difensore di fiducia, ricorre avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 13/04/2023, con cui é stata confermata la sentenza del Tribunale di Roma che ha condannato la ricorrente alla pena di giustizia in ordine ai reati di truffa aggravata in danno della ASL (assolvendola, al contempo, dall’ipotesi ascritta ai danni dei privati) e di peculato d’uso.
1. Con il primo motivo deduce l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 640 cod. pen., in relazione al combinato disposto degli artt. 1350 cod. civ., 57, comma 7, d.lgs. n. 163/2006 e 23, I. n. 62/2005.
La censura attiene alla ritenuta persistenza della convenzione amministrativa relativa al regime pubblico di assistenza (stipulata tra la l’ASL e la società privata esterna (omissis) avente ad oggetto la fornitura di manufatti odontotecnici occorrenti ai presidi dell’azienda sanitaria, in relazione alla quale alla ASL spettava il 20% della cifra pagata dal paziente sulla base di un c/c ad hoc), indicata nell’imputazione quale presupposto della truffa, avente una durata di anni tre e scadenza fissata al 31/08/2005, poi rinnovata per iscritto per ulteriori tre anni e scaduta nella sua efficacia al 31/08/2008.
Successivamente a tale data, si osserva, nessun atto formale era intervenuto per i presidi interessati, dai quali andava peraltro escluso l’ambulatorio ove la ricorrente prestava servizio (ossia quello di (omissis) mai incluso nel relative elenco. Stante l’assenza di rinnovo o proroga, la convenzione doveva ritenersi non più operativa all’epoca dei fatti oggetto di giudizio.
Peraltro, con riguardo all’efficacia temporale, la sentenza impugnata, pur dando atto dell’assenza dell’adozione di una formale delibera di rinnovo, aveva ritenuto prorogato il rapporto contrattuale sulla scorta di una prassi che la stessa Corte d’appello aveva definito “non del tutto regolare”.
Si trattava, però, di una conclusione che si poneva in contrasto con le previsioni contrattuali, in quanto la proroga “tecnica” del contratto era consentita non oltre 120 giorni dalla scadenza e non sine die.
Ne poteva riferirsi la persistente validità del contratto per facta concludentia, in quanto la volontà delle parti di proseguire la prestazione dei servizi odontoiatrici anche nel periodo successive alla scadenza del contratto non poteva tenere luogo di un atto formale di proroga essendo necessaria la forma scritta ad substantiam.
Inoltre, a norma dell’art. 57, comma 7, d.lgs. n. 163/2006, é vietato il rinnovo tacito dei contratti della P.A. aventi ad oggetto forniture, servizi e lavori e i contratti rinnovati tacitamente sono nulli.
Peraltro, si evidenzia che lo stesso legislatore, in tema di proroga/rinnovo dei contratti, ha disposto, quale principio generale, che la proroga non possa superare comunque i sei mesi (art. 23 I. n. 62 del 2005).
Si richiamano, poi, orientamenti del C.d.S. e dell’ANAC sulla natura del tutto eccezionale della proroga nelle more della stipula del nuovo contratto.
In assenza, dunque, di una specifica e valida convenzione, mancava il danno patrimoniale, quale elemento integrative della fattispecie, non potendo la ASL accampare alcuna legittima pretesa in ordine alla percentuale che era contrattualmente stabilita in riferimento a ciascuna fornitura.
2. Inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 640, 42 e 43 cod. pen. in ordine all’individuazione del soggetto passivo del reato di truffa.
Anche laddove si fosse asseverate che l’intento dell’imputata era quello di impossessarsi delle somme di denaro corrisposte dai pazienti per gli interventi effettuati, il soggetto destinatario della condotta truffaldina sarebbe solo la società privata quale destinataria dei manufatti odontotecnici da effettuare e non la ASL, quale percettore di royalty da parte di quest’ultima. Infatti, l’ipotetico 20% a questa spettante doveva essere corrisposto direttamente dalla società privata (la (omissis) sul fatturato generate dai lavori nel presidio interessato dalla convenzione.
3. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 314, comma 2, cod. pen.
Si evidenzia come l’utilizzo delle attrezzature nell’ambulatorio odontoiatrico – a prescindere dal rilievo che erano state dotate direttamente dalla ricorrente a sue spese – é avvenuta negli stessi locali della ASL, senza asportazione o diversa utilizzazione dalla loro naturale destinazione, in quanto volte a soddisfare finalità pubblicistiche dirette alla cura ed assistenza dei pazienti dell’ASL.
Pertanto, nessuna condotta di “restituzione” della res poteva individuarsi nel caso in esame, in quanto nulla era stato asportato e/o sottratto.
Difettava, poi, un danno apprezzabile al patrimonio della P.A. o di terzi ovvero alla concreta funzionalità dell’ufficio, tanto che lo stesso pubblico ministero nel corso del giudizio di primo grado aveva sollecitato la riqualificazione del fatto in abuso d’ufficio.
4. II Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale, dr.ssa Mariaemanuela Guerra, con requisitoria del 20/01/2024, ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
5. Con memoria del 7/02/2024, la difesa della ricorrente, nel replicare alle conclusioni del Pubblico ministero, ha insistito per l’accoglimenti dei motivi di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
II ricorso é inammissibile.
1. II primo motivo é manifestamente infondato.
É incontestato che la convenzione amministrativa – in forza della quale la ditta privata continuava ad operare con suoi incaricati all’interno dei presidi ASL per eseguire le prestazioni odontoiatriche e in forza della quale su ogni fornitura era riconosciuto alla ASL una percentuale detratta dalla somma direttamente pagata dal paziente con apposito bollettino di c/c – fosse all’epoca dei fatti scaduta e che la proroga dei servizi ad opera della ditta privata (omissis) avvenne in assenza di formale rinnovo.
A detta della difesa tanto basterebbe per escludere il presupposto della truffa, in quanto l’assenza di una valida convenzione sottostante legittimerebbe la condotta dell’imputata la quale si é discostata dalle previsioni contrattuali che imponevano ai pazienti di effettuare il pagamento a mezzo bollettino postale, affinché poi fosse operata la trattenuta riconosciuta alla ASL, quale percentuale sui servizi resi dalla ditta incaricata di provvedere alla fornitura dei prescritti supporti odontoiatrici.
Si tratta, tuttavia, di un rilievo che non risolve ii tema di fondo in forza del quale il giudice del merito ha ritenuto persistente l’obbligo del sanitario di seguire comunque la procedura oggetto della convenzione che non le consentiva di ricevere direttamente i pagamenti dai pazienti e di avvalersi di ditte differenti da quella alla quale andava indirizzato il pagamento affinché poi fosse operata la trattenuta in favore della ASL.
Invero, dalla lettura delle sentenze di merito risulta che l’assenza di interruzione dei servizi resi dalla ditta originariamente incaricata fosse stata asseverata dalla stessa amministrazione, in forza di una prassi che aveva interessato diverse ASL sul territorio nazionale, stante la necessita di assicurare la continuità dei servizi prestati a fronte del ritardo nell’espletamento delle relative procedure di evidenza pubblica: si era dunque previsto che la ditta in precedenza incaricata continuasse ad erogare le prestazioni pur a convenzione scaduta, così consentendosi alla ASL di continuare a percepire la relativa contribuzione, per come già avvenuto in occasione della scadenza di precedenti convenzioni.
In particolare, la sentenza impugnata ha richiamato le missive inviate – proprio a riscontro di una nota della stessa ricorrente – dal responsabile della (omissis) nonché della Regione Lazio, in cui si ribadisce che la società deputate a rendere le prestazioni sono ancora quella oggetto della convenzione, evidenziandosi, al contempo, che le questioni attinenti alla fornitura dei servizi appartengono alla direzione aziendale e non sono di pertinenza dei rispettivi sanitari che pure le prescrivono.
Si tratta di circostanza confermata anche dal teste della (omissis) (omissis) il quale ha riferito che la convenzione, benché scaduta, avesse continuato a regolare i rapporti tra le parti, come avvenuto con riguardo allo specifico settore in modo diffuso anche in altre zone del territorio nazionale.
Pertanto, posto che il regime della convenzione, benché scaduta, continuava a regolare le procedure di affidamento delle prestazioni assistenziali, assicurando all’ente pubblico una percentuale sul monte di quelle rese, all’imputata non era consentito, quale sanitario incaricato ad eseguirle in ambiente ASL, modificare unilateralmente la procedura amministrativa in vigore, sostituendo d’imperio alla (omissis) altra ditta privata del settore.
Peraltro, la prospettazione difensiva secondo cui la scadenza della convezione avrebbe legittimato il medico ad un ritorno al libero mercato che lo avrebbe affrancato dall’attivare il regime pubblico di assistenza, si pone in contrasto con le ragioni che riservano all’evidenza pubblica tali forme di contrattazione, in quanta volte, per un verso, a regolamentare prestazioni assistenziali di carattere diffuse e, per altro, ad assicurare all’ente pubblico un corrispettivo sulle stesse che, altrimenti, verrebbe meno.
Se a ciò si accompagna, per come precisato dalle sentenze di merito, la necessita di non interrompere lo svolgimento delle prestazioni assistenziali in attesa di concludere un nuovo contratto (che anche laddove avesse individuate un nuovo contraente non avrebbe di certo potuto disconoscere sul piano economico le prestazioni erogate dalla precedente ditta assegnataria in costanza di consenso espresso dell’amministrazione), secondo peraltro una prassi all’epoca diffusa e consolidata che non risulta, nel periodo di interesse, avere rinvenuto formali elementi ostativi nell’ambito delle disposizioni inerenti al servizio prestato ovvero in pronunciamenti del giudice amministrativo, ne consegue la cogenza delle determinazioni nelle more assunte dall’amministrazione alle quali il personale doveva uniformarsi.
2. Gli altri motivi di ricorso attinenti alla truffa sono reiterativi di analoghe censure svolte con i motivi di appello, motivatamente disattese dalla sentenza impugnata con argomenti scevri da vizi logici ed aderenti alle risultanze istruttorie
2.1. La circostanza che anche il presidio ove la ricorrente prestava servizio fosse stato incluso nell’ambito dell’elenco che doveva uniformarsi al regime oggetto della convenzione stipulata con la (omissis) é stata tratta da convergenti dichiarazioni testimoniali di soggetti anche intranei all’amministrazione, in assenza di allegati travisamenti.
2.2. L’altrui danno conseguente alla condotta truffaldina é stato correttamente individuato anche in pregiudizio della sfera giuridica della ASL, in quanto destinataria di parte dei proventi derivanti dalla fatturazione delle prestazioni effettuate dalla ditta privata. Le modalità di erogazione del servizio, per come precisate dalla sentenza del Tribunale e richiamate da quella impugnata, confermano la correttezza delle conclusioni raggiunte sul punto dai giudici di merito.
3. II secondo motivo in ordine al peculato d’uso é manifestamente infondato.
II mancato rispetto del regime pubblicistico di assistenza ha, infatti, snaturato la prestazione svolta, trasformando i locali della ASL in una sorta di studio privato, in contrasto con la destinazione pubblicistica che l’ambulatorio e, soprattutto, per quanto di qui interesse (riguardando il peculato d’uso le case mobili), le attrezzature e le dotazioni strumentali erano destinate a soddisfare.
Sussiste, pertanto, il peculato d’uso essendosi al cospetto di un mutamento – seppur a carattere momentaneo – del titolo in forza del quale la ricorrente aveva la disponibilità delle attrezzature e degli altri beni mobili specificamente indicati in sentenza (v. pag. 8).
Meramente assertivo é, poi, il rilievo che la condotta illecita non abbia causato un danno patrimoniale apprezzabile all’ente pubblico, a fronte di reiterati pagamenti ricevuti in contanti e sottratti all’aggio da riconoscersi alla ASL.
4. Inammissibile risulta, infine, la richiesta di riqualificare il fatto di cui al capo B) della rubrica in abuso d’ufficio, sul rilievo che i destinatari delle prestazioni sarebbero stati pur sempre pazienti ASL che non hanno subito un costo maggioritario, assicurandosi così l’interesse pubblico.
Sebbene la questione relativa alla qualificazione del fatto in abuso d’ufficio fosse stata oggetto di esame da parte del Tribunale, il quale l’aveva ritenuta insussistente (v. pag. 8), nell’atto di appello non risulta stata specificamente riproposta.
Peraltro, a fondamento della doglianza si pone nel ricorso un profilo di merito che comporterebbe ad opera della Corte di legittimità accertamenti di fatto preclusi in questa sede.
La questione sulla qualificazione giuridica del fatto, seppur rientra nel novero di quelle su cui la Corte di cassazione può decidere, ex art. 609, comma 2, cod. proc. pen., può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità solo se per la sua soluzione non siano necessari accertamenti in punto (Sez. 2, n. 13387 del 16/05/2013, dep. 2014, Rossi, Rv. 259730 – 01).
5. In conclusione, nulla aggiungendo di decisivo il contenuto della memoria difensiva depositata ii 7/02/2024, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
La declaratoria di inammissibilità preclude al Collegio, in conformità all’orientamento consolidato di legittimità, di rilevare d’ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2, cod. proc. pen., la prescrizione della truffa e del peculato d’uso (quale ipotesi autonoma di reato punita meno gravemente di quella di cui al primo comma dell’art. 314 cod. pen. – Sez. 6, n. 46244 del 15/11/2012, P.G., Rv. 254286 – 01) maturata successivamente alla pronuncia della sentenza di appello. (In motivazione la Corte ha precisato che l’art. 129 cod. proc. pen. non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, attribuendo al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione). (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818 – 01).
6. All’inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa per le ammende, così determinata in ragione dei profili di inammissibilità rilevati (Corte cost., 13 giugno 2000 n. 186).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, il 13/02/2024
II Consigliere estensore Il Presidente
Giovanni Ariolli Sergio Beltrani
Depositato in Cancelleria, oggi 11 marzo 2024.