Legittimo il licenziamento del dipendente che minaccia datore e colleghi in chat (Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 2 maggio 2023, n. 11344).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 6455/2020 R.G. proposto da:

(OMISSIS) ANTONIO, domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE SUPREMA di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA (OMISSIS);

-ricorrente-

contro

(OMISSIS) (OMISSIS) S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE SUPREMA di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato PIETRO (OMISSIS);

-controricorrente-

avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI L’AQUILA n. 769/2019, depositata il 28/11/2019, R.G.N. 51/2019;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 16/02/2023 dal Consigliere Dott.ssa CARLA PONTERIO.

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. MARIO FRESA, visto l’art 23, comma 8 bis del D.L. 28 ottobre 2020 n. 13, convertito con modificazioni nella legge 18 dicembre 2020 n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

Fatti di causa

1. La Corte d’appello di L’Aquila ha respinto l’appello di Antonio (OMISSIS), confermando la sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato al predetto il 30.5.2017 dalla (OMISSIS) (OMISSIS) s.r.l.

2. La Corte territoriale ha premesso che al lavoratore era stato contestato di avere, nella giornata dell’11 maggio 2017, inviato su un gruppo whatsapp composto dai dipendenti della società messaggi minacciosi, farneticanti e diffamatori nei confronti della datrice di lavoro; di essersi presentato in azienda alle ore 22.00, in stato di alterazione, di essere entrato nei reparti produttivi in abiti civili, senza indossare i dispositivi di protezione e il vestiario necessario per la sicurezza e l’igiene alimentare, e di aver creato agitazione tra i colleghi con un atteggiamento minaccioso, aggressivo e provocatorio; di essersi rifiutato di lasciare i locali aziendali tanto da rendere necessario l’intervento dei carabinieri; di avere continuato per tutta la notte a inviare messaggi di contenuto minaccioso ed ingiurioso al legale rappresentante della società, rappresentando sabotaggi e danneggiamenti all’azienda; di avere anche nei giorni precedenti rivolto minacce e ingiurie ai colleghi di lavoro e tenuto condotte di insubordinazione verso i superiori gerarchici.

Ha ritenuto che la contestazione disciplinare avesse i necessari requisiti di specificità e che le prove raccolte dimostrassero la sussistenza degli addebiti, idonei ad integrare la giusta causa di recesso.

3. Avverso tale sentenza Antonio (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.

La (OMISSIS) (OMISSIS) s.r.l. ha resistito con controricorso.

4. Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso e la difesa di parte ricorrente ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

Ragioni della decisione

5. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. la violazione dell’art. 111 Cost., dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c.

6. Si censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha escluso il difetto di genericità della contestazione attraverso una motivazione apparente ed apodittica, sostanzialmente incentrata sul rilievo che il lavoratore fosse in grado di cogliere il riferimento fatto nella contestazione a episodi di invio di messaggi avvenuti nei giorni immediatamente precedenti rispetto all’11 maggio 2017.

Si ribadisce come la contestazione fosse intrisa di espressioni generiche, quali “stato di alterazione” e “stato di agitazione” e fosse priva di precise indicazioni sulla collocazione temporale dei fatti contestati, sull’esatto contenuto dei messaggi inviati tramite whatsapp e facebook, sulla identificazione dei superiori gerarchici e dei colleghi di lavoro, risultando così impedito il pieno esercizio del diritto di difesa nonché il controllo di legalità che compete al giudice.

7. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 p.c. la violazione dell’art. 111 Cost., dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 118 disp. att. c.p.c.

8. Si imputa alla sentenza d’appello un difetto di motivazione sulla valutazione delle prove raccolte, sulla materialità delle condotte addebitate al lavoratore, sulla rilevanza disciplinare delle stesse nonché sulla proporzionalità della sanzione applicata.

Si assume che la sentenza impugnata non spieghi perché abbia ritenuto i messaggi destinati ai responsabili dell’azienda e all’amministratore e perché abbia ritenuto che il post contenente foto riproducenti pistole fosse da mettere in relazione ad altri post recanti notizie di cronaca su aziende italiane cedute a società straniere.

Le critiche riguardano, tra l’altro, l’attribuzione di contenuto minaccioso alle frasi scritte nei post e nei messaggi (deducendosi inoltre l’assenza dei presupposti per la diffamazione in riferimento a contenuti veicolati tramite mezzi di comunicazione elettronica a partecipazione ristretta), la valutazione delle risultanze istruttorie sulla presenza “fuori orario” del lavoratore in azienda la sera dell’11 maggio 2017, la valutazione come grave insubordinazione del rifiuto del predetto di allontanarsi a fronte dell’invito da parte del legale rappresentante.

9. I due motivi di ricorso, che si trattano congiuntamente per la connessione logica e la parziale sovrapposizione delle censure mosse, non possono trovare accoglimento.

10. Con giurisprudenza costante, questa Corte ha affermato che la contestazione dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve a tal fine rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. (Cass. n. 7546 del 2006; Cass. n. 10662 del 2014; Cass. n. 29240 del 2017).

Le stesse pronunce ribadiscono che l’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito.

11. Su quest’ultimo aspetto, la S.C. ha ulteriormente chiarito che il giudice di merito, al fine di valutare il grado di specificità della contestazione, deve tener conto del contesto in cui i fatti di rilievo disciplinare si collocano, della natura e del contenuto dei fatti medesimi ed accertare se la mancata precisazione di alcuni elementi fattuali (ad esempio di ordine temporale, spaziale o relativi alle esatte parole pronunciate) possa aver determinato un’insuperabile incertezza nell’individuazione dei comportamenti imputati, tale da pregiudicare in concreto il diritto di difesa (Cass. n. 6889 del 2018; Cass. n. 9590 del 2018).

12. La Corte d’appello ha fatto corretta applicazione dei principi appena enunciati avendo giudicato “sufficientemente circostanziato” l’episodio dell’11 maggio 2017 in cui l’attuale ricorrente si era recato in azienda, intorno alle ore 22.00, pur non impegnato nei turni di lavoro, con atteggiamento “minaccioso, aggressivo e provocatorio”, tanto che era stato necessario l’intervento dei carabinieri per far allontanare il predetto dal luogo di In sintonia con i citati principi, ha ritenuto esistenti gli “essenziali” requisiti richiesti dalla elaborazione giurisprudenziale ai fini della specificità della contestazione.

Considerazioni analoghe la Corte di merito ha svolto riguardo all’altro segmento della condotta di rilievo disciplinare, consistito nell’invio, prima dell’apparizione in azienda la sera dell’11 maggio, di plurimi messaggi “minacciosi, farneticanti e diffamatori” sul gruppo whatsapp dei dipendenti della società.

13. La motivazione resa sul punto dai giudici di appello non contiene alcuno dei vizi che, secondo quanto statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenze n. 8053 e 8054 del 2014), determina la nullità per violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c.

14. Con le sentenze appena citate si è precisato che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabilità e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione”.

La motivazione apparente, che determina nullità della sentenza perché affetta da error in procedendo, è quella che non consente di percepire il fondamento della decisione, perché reca argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. Cass. n. 22232 del 2016; Cass. n. 12351 del 2017). Tali caratteristiche sono certamente assenti nella pronuncia in esame.

15. Le residue censure, esposte nel secondo motivo di ricorso, sono inammissibili nella parte in cui criticano la valutazione delle prove e, attraverso queste, la ricostruzione dei fatti nella loro materialità, nella riferibilità degli stessi all’attuale ricorrente e nella individuazione dei destinatari dei medesimi.

Censure di questo contenuto si pongono all’esterno del perimetro segnato dall’art. 360, n. 5 cod. proc. civ. che, nel testo novellato come letto dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. sentenze n. 5083 e n. 5084 del 2014 cit.), consente unicamente di veicolare in sede di legittimità l’omesso esame di un fatto storico avente valore decisivo; il motivo di ricorso in esame investe non fatti ma elementi probatori suscettibili come tali di valutazione e peraltro plurimi, nessuno dei quali quindi decisivo (v. Cass. n. 28154 del 2018; Cass. n. 21439 del 2015).

16. Sulla integrazione del parametro della giusta causa di licenziamento, la Corte d’appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa (cfr. n. 18715 del 2016; n. 6901 del 2016; n. 21214 del 2009; n. 7838 del 2005) e di proporzionalità della misura espulsiva (cfr. Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007) ed ha motivatamente valutato la gravità della condotta del dipendente, sia complessiva e sia in relazione ai singoli episodi, partitamente esaminati con valutazione di infondatezza degli elementi giustificativi addotti, in particolare sottolineando il carattere intimidatorio della condotta stessa nei confronti della persona dell’amministratore della società.

17. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato.

18. La regolazione delle spese segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.

19. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma all’udienza del 16.2.2023.

Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2023.

SENTENZA – copia non ufficiale -.