R E P U BB L I C A I T A L I A N A
In Nome Del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
Composta dagli Illustrissimi Signori Magistrati:
dott.ssa Antonietta Scrima – Presidente
dott. Marco Rossetti – Consigliere
dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello – Consigliere
dott. Paolo Spaziani – Consigliere
dott. Carlo Rossello – Consigliere
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso n. 17289/21 proposto da:
-) (omissis) s.p.a., in persona dei procuratori speciali dott. (omissis) (omissis) in virtù di procura speciale apposta in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
-) (omissis) s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso l’indirizzo PEC dei propri difensori, difesa dagli avvocati (omissis) (omissis) (omissis) (omissis) in virtù di procura speciale apposta in margine al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza del Tribunale di (omissis)18 dicembre 2020 n. 559;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 settembre 2023 dal Consigliere relatore dott. Marco Rossetti;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Stanislao De Matteis che ha concluso per il rigetto del ricorso;
uditi, per la parte ricorrente, l’Avvocato (omissis) e, per la parte controricorrente, l’Avvocato (omissis).
FATTI DI CAUSA
1. Nel 2018 la società (omissis) s.p.a. convenne dinanzi al Giudice di pace di (omissis) la società (omissis) s.p.a., esponendo che:
-) aveva stipulato con la convenuta un contratto di conto corrente bancario;
-) il contratto prevedeva, fra gli altri servizi, l’obbligo della (omissis) di dare esecuzione ai cc.dd. bonifici domiciliati disposti elettronicamente dalla (omissis);
-) nel 2015 (omissis) l’aveva disposto un bonifico domiciliato a favore di tale (omissis) (omissis) inviando a mezzo posta al domicilio da questa eletto la password necessaria per la riscossione del pagamento;
-) la (omissis) aveva eseguito il pagamento a favore di persona diversa dal beneficiario, identificata in base ad un documento di identità presumibilmente falso;
-) la (omissis) di conseguenza era stata costretta a pagare nuovamente la somma dovuta al reale creditore.
Premessi questi fatti, l’attrice chiese la condanna della società convenuta al risarcimento del danno consistito nella duplicazione del pagamento.
2. Con sentenza 284 del 2019 il Giudice di pace di (omissis) accolse la domanda e condannò (omissis) al pagamento in favore di (omissis) della somma da questa richiesta.
Il Giudice di pace ritenne che una volta accertato l’avvenuto pagamento a favore di persona non legittimata,(omissis) dovesse risponderne nei confronti della disponente, ai sensi dell’articolo 43, secondo comma, della legge assegni, a prescindere dalla sussistenza di colpa nell’identificazione del beneficiario.
La sentenza fu appellata dalla (omissis).
3. Il Tribunale di (omissis) con sentenza 18 dicembre 2020, n. 559 accolse il gravame e rigettò la domanda.
Il Tribunale ha ritenuto che:
-) la domanda come formulata dalla (omissis) era soggetta alla disciplina delle azioni contrattuali;
-) spettava dunque alla (omissis) dimostrare di avere adempiuto esattamente la propria obbligazione, ovvero dimostrare la propria assenza di colpa nell’erronea individuazione del beneficiario;
-) (omissis) aveva assolto tale onere dimostrando di avere pagato a persona in possesso di un documento di identità e della password inviata dalla (omissis) al proprio creditore.
4. La sentenza d’appello e stata impugnata per Cassazione dalla (omissis) con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria.
La (omissis) ha resistito con controricorso.
Il Sostituto Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Primo motivo
Col primo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’articolo 43 della legge assegni e dell’articolo 12 delle preleggi.
Nell’illustrazione del motivo la ricorrente sostiene che in caso di erroneo pagamento di un bonifico domiciliato dovrebbe applicarsi analogicamente la regola dettata dalla legge in caso di erroneo pagamento di un assegno non trasferibile: e cioe la banca negoziatrice ne risponderebbe verso il traente.
Dopo aver premesso ciò, la ricorrente riconosce che tuttavia la responsabilità di cui all’articolo 43 della legge assegni non e una responsabilità oggettiva ma fondata sulla colpa, e che pertanto applicare o non applicare tale norma al caso di specie sarebbe irrilevante.
1.1. Il primo motivo di ricorso é inammissibile.
L’inammissibilità del motivo emerge anzitutto alla luce dell’ultimo rilievo formulato dalla stessa società ricorrente, atteso che la doglianza concerne l’asserita violazione di una norma di legge la cui applicazione, alla stregua delle stesse deduzioni della denunciante, sarebbe irrilevante. L’inammissibilità del motivo emerge anche in considerazione della reale ratio decidendi della sentenza impugnata, con la quale esso non sembra adeguatamente confrontarsi (v., già, in tal senso, con riguardo ad una fattispecie sovrapponibile alla presente, Cass. 13/09/2022, n. 26866).
Il giudice d’appello, infatti, pur affermando che alla fattispecie in esame non può estendersi la disciplina contenuta nel R.D. n. 1736 del 1993 art. 43, comma 2, ha ritenuto soggetta la fattispecie medesima al regime della responsabilità contrattuale, correttamente sancendo, sul piano della ripartizione dell’onere probatorio, che gravava su (omissis) s.p.a. l’onere di dimostrare, alternativamente, o di avere esattamente adempiuto (pagando al reale beneficiario) o (nell’ipotesi in cui avesse pagato a persona diversa) di avere comunque eseguito la prestazione con la dovuta diligenza (che e quella nascente, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, dalla sua qualità di operatore professionale, tenuto a rispondere del danno anche in ipotesi di colpa lieve), con conseguente non imputabilità dell’inadempimento.
Tale regime di responsabilità (con la connessa regola di riparto dell’onere probatorio), a seguito dell’interpretazione evolutiva dell’art. 43, comma 2, della legge sugli assegni, offerta dalla giurisprudenza di legittimità, non si differenzia dal regime che connota la responsabilità della banca negoziatrice verso il traente per l’ipotesi di pagamento dell’assegno bancario non trasferibile a persona diversa dal prenditore.
Infatti questa Corte, nel suo massimo consesso (con la sentenza n. 12477 del 2018 delle Sezioni Unite, richiamata anche dalla ricorrente) ha affermato – e il principio e stato successivamente più volte ribadito a sezione semplice (Cass. 11/05/2023, n. 12861; Cass. 12/02/2021, n. 3649) – che la responsabilità della banca negoziatrice ha carattere contrattuale da “contatto sociale” e, pertanto, non ha natura di responsabilità oggettiva, la quale e ravvisabile solo laddove difetti un rapporto in senso lato “contrattuale” tra danneggiante e danneggiato, ed il primo sia chiamato a rispondere del fatto dannoso nei confronti del secondo, non per essere con questi entrato in contatto, ma in ragione della particolare posizione rivestita o della relazione che lo lega alla res causativa del danno.
Da tale principio e stata tratta l’implicazione che la norma del R.D. n. 1736 del 1933, art. 43, comma 2, non comporta alcuna deroga ai principi generali in tema di identificazione del presentatore del titolo, talché la responsabilità della banca non si configura “in ogni caso”, anche a prescindere dall’elemento della colpa nell’errore sulla identificazione del prenditore, essendo la debitrice ammessa, nell’ipotesi di tale errore, alla prova liberatoria di avere comunque usato la dovuta diligenza nel procedere all’identificazione medesima.
Anche alla luce della ratio decidendi della sentenza impugnata, pertanto, l’applicazione o meno del citato art. 43, comma 2, della legge sugli assegni, non avrebbe mutato, nella sostanza, il regime di responsabilità concretamente applicabile nella fattispecie, desumibile, pur sempre, dalle regole generali contenute nell’art. 1176 c.c., comma 2, e art. 1218 c.c..
1.2. In ogni caso, ove pure fosse stato possibile delibarlo nel merito, il primo motivo di ricorso sarebbe stato infondato.
Correttamente il giudice di appello ha inquadrato il bonifico domiciliato nello schema della delegazione di pagamento, la quale, con riguardo al regime di responsabilità del delegato nei confronti del delegante per l’erronea individuazione del delegatario, e soggetta alla disciplina del mandato, che, a sua volta, ripete quella generale di cui all’art. 1218 c.c..
La fattispecie del bonifico domiciliato, pertanto, risulta debitamente disciplinata dalla legge, non ponendosi alcuna necessità di ricorrere, attraverso il procedimento analogico, a “disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe” (arg. ex art. 12 preleggi) e quindi, nella specie, alla regola che disciplina la responsabilità della banca negoziatrice verso il traente di un assegno non trasferibile, a prescindere dalla asserita “somiglianza” tra i due istituti.
2. Secondo motivo.
Col secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’articolo 360 n. 3 c.p.c., la violazione di sette diverse norme del codice civile (artt. 1175, 1176, 1218, 1362, 1366, 1370, 2967) nonché dell’articolo 35 d.p.r. 445 del 2000.
Il motivo investe la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto “diligente”, ex art. 1176 c.c., la condotta della (omissis).
La ricorrente, dopo avere premesso che la violazione della regola di diligenza di cui all’art. 1176 c.c. e sindacabile in sede di legittimità quando, come nella specie, “ii caso concreto sia idoneo a fungere da modello generale di comportamento”, giustappone nell’illustrazione del motivo plurime censure.
2.1. Sotto un primo profilo, la sentenza impugnata e censurata nella parte in cui ha affermato che il flusso telematico relativo alla disposizione posta in essere da (omissis) nel momento in cui aveva ordinato il bonifico domiciliato, recava le indicazioni del nominativo, dell’indirizzo e del codice fiscale del beneficiario, ma non anche la data di nascita e gli estremi del documento di identificazione, che l’ordinante aveva omesso di indicare, non ostante fosse possibile farlo negli appositi “campi” del “form” telematico.
La ricorrente deduce che, contrariamente a quanto rilevato dal giudice di appello, non sussisteva, per l’ordinante, la possibilità di allegare alla richiesta di bonifico domiciliato un maggior numero di informazioni, utili a identificare il destinatario del pagamento, non essendo ciò permesso dalla piattaforma informatica predisposta da (omissis) s.p.a.; osserva che lo standard di informazioni richieste al cliente, ai fini dell’esecuzione del bonifico domiciliato, era stabilito dall’attuale controricorrente, cosicché la richiesta telematica veniva attivata in conformità alle prescrizioni della detta piattaforma e previo inserimento nel “form” dei dati richiesti dalla stessa banca e reputati sufficienti per prendere in carico il bonifico, il quale, quindi, doveva essere da essa correttamente eseguito, senza possibilità di imputare le conseguenze dell’inadempimento alla condotta dell’ordinante.
2.2. Sotto un secondo profilo la sentenza di appello e censurata per avere giudicato diligente la (o, in altri termini, per avere escluso il carattere negligente della) condotta di (omissis) s.p.a. diretta ad identificare il presunto beneficiario del bonifico attraverso la verifica – oltre che del codice fiscale e della password posseduti – dell’unico documento di identità da lui esibito allo sportello.
La società ricorrente sostiene, al contrario, che l’operazione di identificazione del preteso creditore avrebbe potuto considerarsi conforme al modello sociale di diligenza qualificata di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, solo se fosse stata condotta attraverso l’esame di due documenti di riconoscimento.
2.3.1. In tal senso, ad avviso d (omissis) deponeva anzitutto il regolamento contrattuale concluso tra le parti, il quale, all’art. 3, obbligava espressamente (omissis) s.p.a., in qualità di delegata al pagamento, a riscontrare la concordanza dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica con quelli riportati sui “documenti di riconoscimento”, cos, imponendo testualmente la presentazione (e la conseguente verifica), non già di un solo documento, bensì, di più documenti di identità corrispondenti ai tipi individuati nel D.P.R. n. 445 del 2000, art. 35, comma 2.
2.3.2. Nello stesso senso, al di là dell’espressa previsione contrattuale, deponevano, inoltre, sempre secondo la ricorrente, gli standard valutativi del modello di diligenza qualificata esistenti nella realtà sociale, il mancato rispetto dei quali, nel giudizio di responsabilità (o, come nella specie, di irresponsabilità) formulato dal giudice del merito, sarebbe sempre denunciabile in sede di legittimità; infatti, la proliferazione delle ipotesi di accesso abusivo alle informazioni personali e di furto di dati anagrafici e di identità, conseguita alla diffusione del mezzo telematico di trasmissione delle predette informazioni, avrebbe reso socialmente esigibile dal soggetto chiamato all’esecuzione di un pagamento delegato – e, dunque, conforme al modello di comportamento del c.d. bonus argentarius – una condotta rigorosa diretta alla “ferrea” e “inequivocabile” identificazione del preteso beneficiario, in conformità alla raccomandazione contenuta nella circolare ABI del 7 maggio 2001, che suggerisce agli operatori bancari di identificare il prenditore di un assegno non trasferibile mediante due documenti d’identità muniti di fotografia.
2.4. Sotto un terzo profilo, infine, la sentenza impugnata e censurata per avere ritenuto che (omissis) s.p.a. avesse provato, in alternativa all’esatto adempimento, il carattere non imputabile del proprio inadempimento, ai sensi dell’art. 1218 c.c., dimostrando di aver tenuto una condotta conforme al modello di diligenza qualificata (ex art. 1176 c.c., comma 2) nell’identificazione del beneficiario del pagamento.
La società ricorrente evidenzia che non e stata prodotta in giudizio una copia dei documenti che la banca esecutrice avrebbe asseritamente esaminato ai fini dell’identificazione del percettore, sicché della concreta effettuazione di tale esame essa non avrebbe dato alcuna prova, pur essendovi onerata.
Omettendo di rilevare tale mancanza, il Tribunale avrebbe violato sia le regole sul riparto dell’onere della prova, sia l’art. 1176 c.c.: atteso, sotto il primo aspetto, che la mancanza in atti di copia del documento di identità avrebbe implicato la non prefigurabilità in astratto della dimostrazione dell’adempimento dell’obbligo di identificazione, ed in particolare della verifica della coincidenza tra i dati anagrafici riportati nei documenti presentati allo sportello e le indicazioni inserite dal richiedente il bonifico nel “flusso informatico” digitato nella piattaforma (omissis) e considerato, sotto il secondo aspetto, che la mancata conservazione di copia del documento asseritamente esaminato si porrebbe comunque in contrasto con gli standard sociali valutativi del modello di diligenza professionale.
2.5. Come già ritenuto da questa corte in identica fattispecie, coinvolgente le medesime parti del presente giudizio (Sez. 3, Sentenze 27570, 27572 e 27573 del 28.9.2023), le tre censure in cui si articola il secondo motivo di ricorso sono in parte inammissibili e in parte infondate.
2.5.1. É, anzitutto, inammissibile la prima censura con cui si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto – evidentemente sulla base di un accertamento di fatto – che il flusso della disposizione telematica effettuata da (omissis) conteneva l’indicazione del nominativo, dell’indirizzo e del codice fiscale del beneficiario, ma non anche gli elementi ulteriori della data di nascita e degli estremi del documento di riconoscimento, non indicati negli appositi “campi” informatici, che avrebbero potuto consentire all’operatore postale di riscontrare l’eventuale diversa identità del soggetto richiedente il pagamento.
Questa censura, oltre che tendente a suscitare dalla Corte di legittimità un apprezzamento dei fatti alternativo a quello svolto dal giudice del merito (in ordine alla asserita non corrispondenza al vero della circostanza relativa alla possibilità per l’ordinante, di inserire dati ulteriori nella piattaforma telematica), non si confronta con la reale ratio decidendi della statuizione impugnata.
Il giudice di appello, infatti, non ha diminuito o escluso la responsabilità contrattuale della debitrice (omissis) s.p.a. in ragione del rilievo di un fatto colposo esclusivo o concorrente della creditrice (omissis) s.p.a., ma ha escluso la responsabilità della debitrice per avere questa dimostrato di aver tenuto una condotta diligente nella identificazione del preteso beneficiario del bonifico domiciliato, pagando – dopo avere compiuto le verifiche previste dalle condizioni generali di contratto – alla persona che aveva esibito un documento di identità con le generalità del reale creditore, e che inoltre era in possesso del codice fiscale e della password per l’incasso.
Rispetto a questa ratio decidendi resta evidentemente estraneo il rilievo relativo alla mancata comunicazione telematica di dati ulteriori relativi alla persona del beneficiario che ne avrebbero consentito una piu completa individuazione; rilievo che deve reputarsi svolto ad abundantiam da parte del giudice del merito, con conseguente inammissibilità della censura ad esso rivolta.
2.5.2. La seconda censura del secondo motivo, invece, é in parte inammissibile e in parte infondato.
E’ inammissibile nella parte in cui critica l’interpretazione compiuta dal giudice di appello del contratto concluso tra (omissis) e (omissis) sull’assunto che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, il detto regolamento contrattuale (art. 3) avrebbe obbligato espressamente (omissis) (omissis) s.p.a., in qualità di delegata al pagamento, a riscontrare la concordanza dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica con quelli riportati sui “documenti di riconoscimento”, così, imponendo testualmente la presentazione (e la conseguente verifica), non già di un solo documento, bensì, di più documenti di identità corrispondenti ai tipi individuati nel D.P.R. n. 445 del 2000, art. 35, comma 2.
Secondo il pacifico e consolidato orientamento di questa Corte, l’interpretazione del contratto, traducendosi in un’operazione di ricerca e di individuazione della comune volontà dei contraenti, costituisce un accertamento di fatto, riservato al giudice di merito, non sindacabile in sede di legittimità se non per violazione delle regole ermeneutiche (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3), oppure per inadeguatezza di motivazione (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione antecedente alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, ove applicabile), oppure, ancora, nel vigore del novellato testo di detta norma, per omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti (Cass. 14/07/2016, n. 14355; v. anche, tra le altre, Cass. 22/06/2005, n. 13399).
Quale che sia la censura in concreto formulata, nessuna di esse può, peraltro, risolversi in una critica del risultato esegetico raggiunto dal giudice del merito, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione, atteso che, per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data al contratto dal giudice del merito non deve essere l’unica possibile, ne la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni (ex multis, Cass. 2/05/2006, n. 10131; Cass. 20/11/2009, n. 24539; Cass. 15/11/2017, n. 27136; Cass. 28/11/2017, n. 28319).
Nel caso di specie, il giudice d’appello ha espressamente considerato il testo delle condizioni generali di contratto che imponevano a (omissis) s.p.a. di riscontrare “la concordanza dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica con quelli riportati sui documenti di riconoscimento presentati dal beneficiario della riscossione” ed ha, all’evidenza, plausibilmente interpretato l’espressione “documenti di riconoscimento presentati” come riferita al documento di identità di volta in volta esibito allo sportello dal richiedente il pagamento.
D’altra parte, la plausibilità di tale interpretazione trova conferma nella circostanza che la clausola contrattuale non prevedeva che il beneficiario dovesse presentare due documenti ma si limitava, genericamente, a fare riferimento ai “documenti di riconoscimento presentati dal beneficiario”, così, rendendo evidente che, ai fini dell’esatto adempimento dell’obbligazione contrattualmente assunta, era sufficiente che la verifica dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica fosse condotta controllandone la corrispondenza con quelli presenti nel documento di identità di volta in volta esibito dai richiedenti.
La circostanza che il giudice del merito abbia fornito una interpretazione del contratto sicuramente plausibile (se non decisamente corretta) esclude la possibilità di dolersene in sede di legittimità sol perché la parte che propone la censura aveva interesse a che fosse privilegiata una diversa interpretazione rimasta disattesa.
La seconda censura veicolata con il secondo motivo di ricorso, appare, dunque, sotto questo aspetto, inammissibile, in quanto si risolve nella mera critica del risultato interpretativo raggiunto dal Tribunale e nella non consentita contrapposizione, a quella fornita dal giudice di merito, di una diversa e più favorevole interpretazione del contratto.
2.5.3. La seconda censura del secondo motivo di ricorso é, invece, infondata nella parte in cui – sull’assunto che il giudizio di osservanza o di violazione della regola di diligenza di cui all’art. 1176 c., formulato dal giudice del merito, sarebbe censurabile in Cassazione quando si ponga in contrasto con gli “standard valutativi esistenti nella realtà sociale” nell’ipotesi in cui “il caso concreto sia idoneo a fungere da modello generale di comportamento in una serie indeterminata di casi analoghi” – sostiene che il necessario esame di due documenti di identità, ai fini dell’esatto adempimento dell’obbligo di identificazione del beneficiario del bonifico, sarebbe stato comunque imposto, a prescindere dalle previsioni contrattuali, dall’esigenza di conformarsi al modello di diligenza professionale di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, in conformità alla raccomandazione contenuta nella circolare ABI del 7 maggio 2001.
Al riguardo va osservato che – sebbene sia condivisibile, in linea generale, l’assunto secondo il quale il giudizio di inadempimento (o di adempimento) e il conseguente giudizio di responsabilità (o irresponsabilità) contrattuale, pur essendo riservati al giudice del merito, restano sindacabili in Cassazione quando si pongano in contrasto con i principi dell’ordinamento, come espressi dalla giurisprudenza di legittimità e con quegli standard valutativi esistenti nella realtà sociale che concorrono, con i menzionati principi, a comporre il diritto vivente (entrambi idonei a riempire di contenuto la nozione “elastica” di diligenza professionale richiesta dall’art. 1176 c.c., comma 2: in tal senso, ad es., Cass. 21/03/2019, n. 8047 e Cass. 19/12/2019, n. 34107) – nella fattispecie non solo deve recisamente escludersi tale contrasto, ma deve riconoscersi che, al contrario, tanto i principi ordinamentali espressi dal diritto vivente quanto gli standard sociali integrativi dello stesso sarebbero stati violati proprio se fosse stata affermata la necessita della esibizione di due documenti di identità.
In tal modo, infatti, per un verso, sarebbero stati disattesi i principi affermati da questa Corte circa il carattere non precettivo della raccomandazione contenuta nella circolare ABI del 7 maggio 2001 (Cass. 19/12/2019, n. 34107 e Cass. 13/09/2022, n. 26866, citt.); per altro verso, sarebbe stata disapplicata la regola, desumibile dalle disposizioni di legge sull’efficacia certificativa dei singoli documenti d’identità – e comunque socialmente riconosciuta – secondo cui l’attività di identificazione delle persone fisiche avviene normalmente tramite il riscontro di un solo documento di identità personale.
2.5.4. La terza censura del secondo motivo, infine, e infondata, sia nella parte in cui deduce la violazione delle regole di riparto dell’onere probatorio, sia nella parte in cui deduce la violazione dell’art. 1176 c., comma 2.
Il giudice d’appello ha ritenuto che (omissis) s.p.a. avesse fornito la prova di avere adoperato la dovuta diligenza professionale nell’identificazione della persona presentatasi all’incasso, da un lato procedendo, nel rispetto delle condizioni generali di contratto, a riscontrare la concordanza dei dati anagrafici contenuti nella disposizione telematica effettuata da (omissis) s.p.a. con quelli riportati sul documento di riconoscimento presentato allo sportello dal preteso beneficiario per la riscossione; e, dall’altro lato, ricevendo, da parte di quest’ultimo, la comunicazione del proprio codice fiscale e della parola chiave fornitagli dall’ordinante, onde controllarne la coincidenza con quelli presenti nel flusso del mandato elettronico.
Il Tribunale, inoltre, ha ritenuto accertato, in fatto, che gli estremi di un documento di identità esibito dalla persona presentatasi all’incasso e il suo codice fiscale erano stati annotati nella quietanza di pagamento e verificati mediante la c.d. procedura “Oracolo”.
Tale procedura, come e noto, comporta l’utilizzo di uno strumento informatico di back office, denominato appunto “Oracolo”, che consente di controllare in tempo reale l’autenticità dei documenti di identificazione, tramite un collegamento diretto alle banche dati di (omissis).
Movendo da tale accertamento di fatto, il giudice di appello ha dunque inferito che del documento, i cui estremi erano stati annotati sulla quietanza di pagamento insieme al codice fiscale, in quanto debitamente verificato con la suddetta procedura, non fosse “dato conoscere (e cioé, in sostanza, non fosse apprezzabile) l’eventuale falsità”; e ha concluso che la “mancanza di evidenti anomalie nel documento di identità” escludeva l’esigibilità dalla banca mandataria di “maggiori cautele, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di identificazione secondo gli standard propri del banchiere”.
Viene, dunque, in considerazione un motivato accertamento di merito (come tale, incensurabile in sede di legittimità), all’esito del quale il giudice d’appello, lungi dall’attribuire l’onere probatorio ad una parte diversa da quella cui sarebbe spettato secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla distinzione tra fatti costitutivi ed eccezioni (nel che soltanto sarebbe ravvisabile la violazione dell’art. 2697 c.c.: cfr., ex multis, Cass. 29/05/2018, n. 13395 e Cass. 23/10/2018, n. 26769), ha invece ritenuto che (omissis) s.p.a. avesse debitamente assolto quello impostole dalla norma generale di cui all’art. 1218 c.c., pur traendo questa dimostrazione, anziché dal mezzo di prova precostituita rappresentato dalla copia del documento (che non e stata prodotta agli atti), dal ragionamento inferenziale fondato su una presunzione che, movendo dal fatto accertato dell’espletamento della procedura “Oracolo” e dell’annotazione degli estremi del documento nella quietanza, ha consentito di risalire al fatto ignoto della verifica della sua – almeno prima facie – apparente autenticità.
Da un lato, dunque, la mancata produzione in giudizio della copia del documento rileva, non come fatto sostanziale indice della “ontologica non prefigurabilità in astratto della dimostrazione dell’adempimento dell’obbligo di identificazione”, bensì, come mera omissione processuale e probatoria, ovverosia come mancata allegazione di un mezzo probatorio precostituito del fatto oggetto della prova liberatoria della debitrice, che il giudice del merito, nel pieno esercizio delle proprie prerogative, ha tuttavia reputato irrilevante, ritenendo di poter desumere la predetta prova liberatoria da un diverso mezzo istruttorio, costituito dal ragionamento presuntivo; al riguardo, va ricordato il consolidato principio secondo il quale tanto l’accertamento dei fatti, quanto l’apprezzamento – ad esso funzionale – delle risultanze istruttorie e attività riservata al giudice del merito, cui compete non solo la valutazione delle prove ma anche la scelta, insindacabile in sede di legittimità, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. 15/07/2009, n. 16499; Cass. 13/06/2014, n. 13485; Cass. 4/07/2017, n. 16467; Cass. 23/05/2014, n. 11511).
Dall’altro lato, l’accertata posizione in essere, da parte di (omissis) s.p.a., di una attività di identificazione della persona presentatasi allo sportello, fondata sulla previa verifica – oltre che della corrispondenza della password e del codice fiscale a quelli indicati nel flusso telematico – anche dell’apparente autenticità del documento di identità da essa esibito, non può essere considerata in contrasto né con i principi ordinamentali né con gli standard valutativi sociali della diligenza professionale, dal momento che essa attività, al contrario, appare perfettamente conforme alla regola, socialmente riconosciuta, secondo cui l’identificazione delle persone fisiche avviene normalmente tramite il riscontro del documento di identità di volta in volta esibito (Cass. 19/12/2019, n. 34107, cit.); né, in mancanza di specifica prescrizione normativa, può reputarsi esistente una best practice che impone al delegato di pagamento l’estrazione di copia e la conseguente conservazione del documento esaminato in funzione dell’identificazione del delegatario, anche in ragione della necessita di bilanciare le esigenze dell’attività di identificazione con quelle di tutela della riservatezza della persona identificata, che consentono la conservazione della copia riprodotta solo in casi stabiliti selettivamente dalla legge e non oltre il tempo necessario in rapporto alle finalità perseguite (cfr. la Delib. del Garante per la Protezione dei Dati Personali 27 ottobre 2005).
3. Il ricorso, alla luce di quanto precede, deve essere complessivamente rigettato.
4. Le spese del giudizio di legittimità, in ragione del rilievo sistematico della questione sottoposta all’esame della Corte, possono essere integralmente compensate tra le
5. Sussistono i presupposti processuali di cui del P.R. 30 maggio 2002, 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto (Cass., Sez. Un., 20/02/2020, n. 4315).
Per questi motivi
la Corte di cassazione:
(-) rigetta il ricorso;
(-) compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità;
(-) ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Cos, deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile della Corte di cassazione, addì, 13 settembre 2023.
Il consigliere estensore Il Presidente
(Marco Rossetti) (Antonietta Scrima)
Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2023.