Stalking, nessun aggravio di pena se il familiare è stato assente per decenni (Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 19 maggio 2023, n. 21641).

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

QUINTA SEZIONE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Presidente –

Dott. BELMONTE Maria Teresa – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BORRELLI Paola – Consigliere –

Dott. BRANCACCIO Matilde – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS) (OMISSIS), nata a (OMISSIS) il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza del 18/03/2022 della CORTE APPELLO di TORINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa MATILDE BRANCACCIO;

udito il Sostituto Procuratore Generale, Dott. PASQUALE SERRAO D’AQUINO, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso.

udito il difensore, l’avvocato (OMISSIS) (OMISSIS) che ha chiesto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per quanto riguarda l’aggravante; l’annullamento con rinvio per quanto riguarda il trattamento sanzionatorio, riportandosi ai motivi di ricorso ed insistendo per l’accoglimento dello stesso.

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza impugnata, ha confermato la decisione del GIP del Tribunale di Asti del 16.6.2020, resa all’esito di giudizio abbreviato, con cui (omissis) (omissis) è stata condannata alla pena di mesi dieci di reclusione in relazione al delitto di atti persecutori commesso nei confronti del padre, del fratello e della sorella (oltre che del nipote), minacciati (anche gravemente di morte) e molestati quotidianamente una volta che l’imputata si era stabilita abusivamente nel condominio ove era ubicata l’abitazione dei familiari, bivaccando ed affrontandoli urlando e inveendo continuamente contro di loro, provocando stati d’ansia nei parenti e costringendoli anche a modificare la loro vita (in particolare, il fratello (omissis) (omissis) si è stabilito dalla compagna; l’anziano padre per un periodo è stato costretto ad abitare in un hotel).

2. Avverso la citata sentenza ha proposto ricorso l’imputata, tramite il difensore di fiducia, deducendo tre motivi distinti.

2.1. La prima ragione difensiva denuncia violazione di legge e vizio di motivazione carente in relazione alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di stalking.

La tesi difensiva è che la ricorrente non abbia “voluto” provocare gli eventi del reato di cui all’art. 612-bis c.p. ma, con il suo comportamento, intendesse soltanto costringere i familiari a riammetterla in casa del padre, da dove si era allontanata volontariamente anni prima, poiché priva di dimora e di mezzi di sostentamento; a tal proposito, si contesta la correttezza dell’orientamento giurisprudenziale dominante secondo cui il dolo abbraccerebbe, nel delitto in esame, non l’aspetto volitivo della condotta ma solo quello cognitivo (la volontà sarebbe necessaria per la realizzazione delle condotte, con la consapevolezza della loro idoneità alla produzione di uno degli eventi del reato, senza che occorra una rappresentazione anticipata del risultato finale).

Ma il coefficiente soggettivo mancherebbe anche a voler seguire la giurisprudenza della Cassazione in tema di coefficiente soggettivo, poiché la ricorrente non può dirsi che abbia avuto consapevolezza dell’idoneità delle proprie azioni a provocare gli eventi del reato descritti in sentenza, considerate le sue condizioni psico-fisiche compromesse.

2.2. Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione di legge penale in ordine alla mancata esclusione dell’aggravante di “aver agito in danno del padre e dei fratelli, persone con le quali vi era stata una relazione affettiva”, relazione che non è possibile desumere dal mero rapporto di parentela, come invece ha fatto la Corte d’Appello, occorrendo piuttosto “un legame connotato da un reciproco rapporto di fiducia, tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione” (si cita la sentenza n. 11920 del 2018), ovvero una “stabile condivisione della vita comune”: l’imputata aveva lasciato la casa dei genitori quando aveva 18 anni ed era ritornata dopo 30 anni per chiedere al padre di riprenderla in casa, ma aveva ottenuto solo temporanea ospitalità; era stata, quindi, allontanata e si era sostanzialmente “accampata” sul pianerottolo dell’appartamento familiare.

L’interruzione della relazione affettiva, anche a voler ammettere l’esistenza di tale relazione nel periodo in cui la ricorrente, minorenne, abitava nella casa di famiglia, è troppo risalente per poter dire che sia in collegamento con il reato, magari per la genesi dovuta alla cessazione del rapporto.

La Corte d’Appello ha basato erroneamente, pertanto, la sussistenza dell’aggravante nella sola esistenza del legame genitoriale e fraterno, idonei di per sé a ingenerare aspettative di tutela e protezione, nonché a costituire fonte di solidarietà sancita ex lege, determinando oneri e obbligazioni assistenziali, agganciando, peraltro, la sua concreta verifica alla temporanea ospitalità ricevuta dalla ricorrente in casa del padre.

La difesa evidenzia come anche (‘esegesi letterale della disposizione di cui all’art. 612-bis c.p. contrasti con l’interpretazione adottata dai giudici di secondo grado: la norma stabilisce l’inasprimento di pena per l’aggravante al comma 2, sancendo che si ha aggravamento se il fatto è commesso “dal coniuge anche se separato o divorziato, o da persona che è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa”, sicché è evidente che solo per il coniuge, ancorché separato o divorziato, il legislatore aggancia l’aggravante alla qualità, indipendentemente dalla prova dell’esistenza di una relazione affettiva attuale o passata tra l’autore del reato e la vittima, mentre in tutti gli altri casi (compresi i rapporti familiari padre-figlio e fratello-sorella) tale prova è necessaria.

La relazione affettiva è basata sull’affetto, appunto, sulla natura del rapporto personale, e non sulla legge, che prevede obblighi derivanti da rapporti di parentela scollegati da qualsiasi relazione affettiva (si cita la sentenza n. 9406 del 2022, n. m.). Infine, anche la motivazione della sentenza impugnata che legge nel “ritorno a casa” della ricorrente un sintomo dell’esistenza della relazione affettiva evidenzia una manifesta illogicità, poiché invece l’imputata, chiedendo ospitalità al padre, intendeva solo richiamare i familiari ai doveri di solidarietà ed assistenza imposti dal codice civile ai parenti più stretti, ma non certo invocare un inesistente rapporto affettivo.

Si chiede, pertanto, l’annullamento, quantomeno con rinvio della sentenza impugnata, avuto riguardo alla sussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 612-bis, comma 2, c.p., affinché venga riesaminata la questione relativa alla sussistenza attuale o pregressa di un rapporto affettivo tra l’imputata e le persone offese.

2.3. La terza ragione di ricorso denuncia violazione di legge chiedendo una diversa interpretazione dell’espressione “relazione affettiva” utilizzata dall’aggravante descritta dal comma 2 dell’art. 612-bis c.p.: non già qualsiasi rapporto affettivo ma solo quello derivante da una relazione sentimentale simile al coniugio, cui viene, non a caso, normativamente abbinato; data la radicale diversità tra le relazioni sentimentali e l’affettività parentale (anche in caso di “rottura” dei rapporti, che pervade la ratio incriminatrice).

2.4. Un ultimo motivo la ricorrente lamenta l’eccessivo rigore della risposta sanzionatoria, rispetto alla minima gravità dei fatti ed alle sue condizioni psicologiche, che soffrirebbe di complessi di inferiorità e manie di persecuzione quantomeno.

3. Il Sostituto Procuratore Generale, Dott. Pasquale Serrao d’Aquino ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è parzialmente fondato, limitatamente al profilo della sussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 612-bis, comma 2, c.p..

2. Il primo motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato.

Il ricorrente fa leva sul movente che ha ispirato la sua condotta, per escludere la sussistenza dell’elemento psicologico del delitto di atti persecutori in relazione a cui è stato condannato, così confondendo due elementi diversi del reato, dei quali solo il dolo configura una parte della tipicità normativa.

La tesi difensiva, infatti, come si è anticipato, è che la ricorrente non abbia “voluto” provocare gli eventi del reato di cui all’art. 612-bis c.p. ma, con il suo comportamento, intendesse soltanto costringere i familiari a riammetterla in casa del padre, da dove si era allontanata volontariamente anni prima, ed a darle soccorso, poiché priva di dimora e di mezzi di sostentamento.

Evidente è l’equivoco in cui incorre la prospettiva del ricorso e la contrarietà della prospettazione difensiva all’orientamento ermeneutico dominante, che il Collegio intende ribadire, con un ulteriore, necessaria precisazione.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha da tempo evidenziato, in maniera assolutamente unanime (cfr., ex multis Sez. 5, n. 18999 del 19/2/2014, C., Rv. 260411; Sez. 5, n. 43085 del 24/9/2015, A., Rv. 265230; Sez. 1, n. 28682 del 25/9/2020, S., Rv. 279726; nonchè Sez. 5, n. 323 del 14/10/2021, dep. 2022, Rv. 282768), che l’elemento soggettivo del delitto di atti persecutori è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia (nelle quali si risolve l’oggettività tipica), nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire.

Si è, altresì, precisato come, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, il dolo suddetto deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi nei quali si sostanza il reato abituale; detto altrimenti, il dolo generico del delitto di stalking non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (cfr., tra le sentenze richiamate, in particolare Sez. 5, n. 43085 del 24/9/2015, A., Rv. 265230).

Se la preordinazione delle condotte di reato progressive non è prevista sul fronte della tipicità normativa, ancor meno rientra nella tipicità del delitto previsto dall’art. 612-bis c.p. il movente che ha solo “spinto” l’autore del delitto abituale a realizzare la sequenza di azioni dal contenuto complessivamente persecutorio.

La presenza di una finalità o di un obiettivo che si prefigga l’autore del reato, più o meno percepibili, non modifica il fulcro della volontà delittuosa, racchiuso unicamente nella determinazione (il dolo generico) a realizzare più condotte di minaccia e molestia, con la consapevolezza della loro capacità di causare uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire.

2.1. Quanto all’obiezione relativa alla mancanza di consapevolezza, nella ricorrente, dell’idoneità delle proprie azioni a provocare gli eventi del reato descritti in sentenza, in considerazione delle sue condizioni psico-fisiche compromesse, si tratta di un’affermazione apodittica da parte della difesa, sia con riguardo alla stessa consistenza di deficit psichico lamentato, sia se si considera l’immediata percepibilità del disvalore di condotte del genere di quelle poste in essere dall’imputata (urla, aggressioni verbali, molestie plurime e quotidiane, praticamente all’uscio dell’abitazione delle vittime).

Di qui l’inammissibilità del motivo di censura, anche qualora volessero leggersi i denunciati vizi di violazione di legge e di motivazione nel senso coerente alla giurisprudenza di legittimità consolidata sulla natura generica del dolo del reato.

3. Il secondo motivo di ricorso è, invece, fondato.

La difesa denuncia che la Corte d’Appello abbia basato erroneamente la prova della sussistenza dell’aggravante nella sola esistenza del legame genitoriale e fraterno tra imputata e vittime, ritenendo che tale legame sarebbe idoneo, di per sé, ad ingenerare aspettative di tutela e protezione, nonché a costituire fonte di solidarietà sancita ex lege, determinando oneri e obbligazioni assistenziali, agganciando, peraltro, la sua concreta verifica alla temporanea ospitalità ricevuta dalla ricorrente in casa del padre.

La tesi prospettata con l’eccezione in esame centra un punto di effettiva, manifesta illogicità della sentenza impugnata, svelandone il vizio di motivazione, con riferimento alla prova della sussistenza di quella relazione affettiva che il comma 2 dell’art. 612-bis c.p. individua come presupposto integrativo dell’aggravamento di pena, quando il fatto non sia commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, riguardo al quale – invece – il legislatore presume l’esistenza di quella relazione di fiducia che proviene dalla vissuta stabilità di affetti, ancorché il rapporto coniugale sia cessato ovvero interrotto dalla separazione.

Evidentemente, la relazione affettiva che leghi autore del reato e vittima, richiamata dalla previsione aggravatrice, deve essere verificata in concreto, mediante la prova di elementi di fatto sintomatici della sua esistenza (che possono essere i più vari).

Così come pure deve ritenersi che, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all’art. 612-bis, comma 2, c.p., sebbene il concetto di “relazione affettiva” tra autore del reato e vittima – che fonda la ragione di aggravamento del disvalore della condotta e, conseguentemente, della sanzione – non debba intendersi necessariamente soltanto come “stabile condivisione della vita comune”, tuttavia detto concetto evoca, quantomeno, un legame connotato da un rapporto di fiducia, tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione (cfr. Sez. 3, n. 11920 del 9/1/2018, B., Rv. 272383), poiché è proprio l’abuso o l’approfittamento di tale legame di fiducia a costituire fondamento della ratio normativa.

3.1. Orbene, nel caso di specie, come ha correttamente sottolineato il ricorso, la Corte d’Appello, con una laconica motivazione, ha abbinato erroneamente – mediante un argomento logico astratto e frutto di presunzioni – la prova della sussistenza della necessaria “relazione affettiva” tra l’imputata ed i suoi parenti/vittime al rapporto di parentela ed al “diritto naturale”, da cui scaturirebbe, inevitabilmente, la configurabilità di quella relazione di fiducia, il cui abuso si pone alla radice della ratio di aggravamento della disposizione in esame.

Si tratta di una prospettiva interpretativa erronea poiché, come si è già evidenziato, si basa su presunzioni logiche dedotte dai legami parentali e abbandona l’asse di verifica concreta del presupposto dell’esistenza della relazione affettiva, che, invece, costituisce l’unico parametro idoneo a valutare la sussistenza o meno dell’aggravante, nelle ipotesi diverse da quelle nelle quali l’autore dello stalking sia il coniuge, sia pur divorziato o separato.

Nel caso di specie, l’abbandono di ogni rapporto con la famiglia di origine, da parte della ricorrente, per un periodo lunghissimo di oltre trent’anni, depone, anzi, fortemente, nel senso di evidenziare una vera e propria cesura di qualsiasi relazione affettiva-familiare di sorta, ancorché pregressa e su cui, comunque, la Corte d’Appello non spende un solo argomento.

L’elemento sintomatico dell’esistenza di tale relazione affettiva, infatti, è stato rintracciato, dalla sentenza impugnata, nell’intenzione dell’imputata di avvalersi di quel rapporto di fiducia insito nel legame parentale, chiedendo ospitalità alla famiglia d’origine, da cui si era distaccata per decenni; ma è evidente il vizio logico in cui incorre la motivazione dei giudici di secondo grado anche in tal caso, poiché tale richiesta di ospitalità, non accolta se non per un brevissimo periodo, tanto che l’imputata “si è accampata”, successivamente, sul pianerottolo antistante l’appartamento del padre ed ha cominciato la sua campagna persecutoria, dimostra proprio che nessuna relazione affettiva poteva ritenersi instaurata tout court tra i protagonisti della vicenda e giammai può essere ritenuta un indicatore della sua sussistenza.

3.2. Dai riscontrati vizi interpretativi e motivazionali della sentenza impugnata, pertanto, emergono elementi che impongono l’annullamento senza rinvio del provvedimento d’appello, limitatamente alla sussistenza dell’aggravante della relazione affettiva tra autrice del reato di atti persecutori e vittime (art. 612-bis, comma 2, c.p.), con conseguente necessità di rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Torino per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio (cui non può procedere il Collegio, stante la mancanza di elementi motivazionali dai quali desumere la misura dell’aumento sanzionatorio dovuto all’operare dell’aggravante in esame).

Non rileva che il giudizio di bilanciamento tra circostanze opposte sia stato giudicato prevalente in favore delle attenuanti generiche concesse all’imputata, poiché il mutato disvalore complessivo del fatto, cui concorrono le circostanze aggravanti (cfr., per tutte, Sez. 5, n. 24622 del 9/5/2022, Jerradi Noureddine, Rv, 283259, in motivazione, sebbene il Collegio non ignori che vi sia una tesi differente nella giurisprudenza di legittimità, in proposito, che propende per l’inammissibilità del ricorso che punti a contestare un’aggravante dichiarata subvalente nel bilanciamento con circostanze attenuanti), può incidere sull’entità della sanzione base che, nel caso della ricorrente, è stata determinata complessivamente per il reato già aggravato.

L’esclusione dell’interesse all’impugnazione statuito da Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Serafino, Rv. 202269 – secondo cui la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non è assoluta e indiscriminata, ma è subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e l’eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso – si riconnette, invero, all’assenza di qualsiasi profilo di concretezza della pretesa sottesa all’impugnazione, ma le stesse Sezioni unite non mancano di riconoscere detto interesse in “presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante”; una simile lesione è ravvisabile nel riconoscimento di una circostanza aggravante che abbia modificato in peius il disvalore del fatto (così come nel riconoscimento della recidiva, ancorchè subvalente rispetto alle attenuanti, come nel caso della richiamata sentenza n. 24622 del 2022).

3.3. Deve rilevarsi, infine, che, alla luce dell’insussistenza della prova della relazione affettiva prevista come aggravante dall’art. 612-bis, comma 2, c.p., non è necessario affrontare il terzo motivo di ricorso, afferente alla questione dell’astratta possibilità di configurare la “relazione affettiva” prevista come aggravante dal comma 2 dell’art. 612-bis c.p. in relazione a qualsiasi rapporto sentimentale, anche parentale del tipo “padre-figlio” o “sorella-fratello” (ma potrebbe estendersi il problema interpretativo anche alle relazioni affettive amicali), ovvero solo a quelli di ordine “paraconiugale”, da “relazione sentimentale di coppia” e non derivanti da affettività parentale.

4. Deve essere disposto, altresì, che siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla ritenuta circostanza aggravante, che esclude.

Annulla la medesima sentenza quanto al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte d’Appello di Torino.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

In caso di diffusione del provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 2 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2023.