Stop della Cassazione alla vittimizzazione secondaria da parte dei giudici che “derubricano” la violenza domestica a normale lite in famiglia (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 15 settembre 2023, n. 37978).

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SESTA SEZIONE PENALE

Composta da:

Dott. Ersilia Calvanese -Presidente

Dott. Ercole Aprile -Consigliere

Dott. Maria Silvia Giorgi -Consigliere

Dott. Antonio Costantini -Consigliere

Dott. Paola Di Nicola Travaglini -Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

(omissis) (omissis) nata (omissis) il xx/xx/19xx;

avverso la sentenza del 29/04/2022 emessa dalla Corte di appello di Napoli;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dalla Consigliera Dott.ssa Paola Di Nicola Travaglini;

letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Raffaele Gargiulo che ha concluso per il rigetto del ricorso;

letta la memoria dell’avvocato (omissis) difensore di (omissis) (omissis) che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso della parte civile ed in subordine per la sua infondatezza, ritenendo comunque precluse nel giudizio di legittimità le richieste della parte civile.

RITENUTO IN FATTO

1. Il Tribunale di Napoli con sentenza del 20 settembre 2021 ha condannato (omissis) (omissis) (omissis) per il reato di maltrattamenti fisici e morali nei confronti della propria convivente, (omissis) (omissis) protrartisi fino alla sua fuga da casa avvenuta nel (omissis).

Il giudice di primo ha fondato la propria decisione innanzitutto sulla testimonianza della persona offesa, costituitasi parte civile, che ha ripercorso le diverse denunce sporte per le continuative violenze subìte dal convivente, iniziate quando la donna, incinta al quarto mese di gravidanza, aveva chiesto conto a (omissis) se fosse padre di un figlio di (omissis) come rivelatole dalla ex fidanzata del fratello.

Da quel momento l’uomo le aveva imposto di non rivolgergli domande sulla sua paternità e aveva cominciato ad insultarla appellandola come «una poco di buono», con un crescendo gravemente peggiorato dopo la nascita del figlio (omissis).

Infatti, (omissis) la picchiava con schiaffi e pugni, nonostante la presenza del bambino, la minacciava, lanciava oggetti e sfasciava i mobili, accusandola di averlo tradito e reagendo violentemente quando lei si rifiutava di avere con lui rapporti sessuali, fino a costringerla ad allontanarsi da casa con il figlio che l’uomo, peraltro, non aveva mai cercato.

I riscontri a dette dichiarazioni erano stati plurimi, a partire dalle dichiarazioni di (omissis) (omissis) a cui la figlia aveva chiesto aiuto più volte quando (omissis) minacciava di ucciderla, e che aveva personalmente assistito ai calci dati dall’uomo al passeggino quando le due donne gli avevano portato il bambino, tanto da avere loro imposto di andare via; dalle dichiarazioni della psicologa (omissis). e dalla sua consulenza tecnica; dalla messaggistica whatsApp, riportata a pagina sei della sentenza, in cui era trascritto in particolare il contenuto dell’ esplicativo ed inequivoco messaggio del (omissis)) (in cui la donna aveva scritto che avrebbe potuto denunciarlo per quanto fatto, ma aveva voluto dargli un’altra opportunità anche se lui le faceva paura per i suoi modi, che l’avevano costretta a «giornate infernali», e nonostante l’uomo fosse sparito anche rispetto al figlio); dalla mancata smentita da parte dell’imputato di tutto quanto riferito dalle testimoni, riconoscendo le offese alla donna perché reciproche e collegate alla volontà di vedere il bambino.

Il padre di (omissis) invece, aveva riferito di conflitti di coppia dovuti alla gelosia della donna, mentre la sorella dell’imputato non aveva mai ricevuto confidenze della cognata circa i litigi.

A causa delle accertate condotte maltrattanti, (omissis) (omissis) (omissis) era stato sottoposto alla misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa protrattasi sino alla pronuncia di secondo grado.

2. In forza del medesimo compendio probatorio, la Corte di appello di Napoli ha assolto](omissis)(omissis)1al delitto di maltrattamenti, con revoca delle statuizioni civili della sentenza di primo grado e perdita di efficacia della misura cautelare, rilevando come, nonostante la certa credibilità della persona offesa circa· le violenze, fisiche e psicologiche, patite dal convivente, tali da averla portata all’allontanamento dall’abitazione comune, insieme al figlio piccolo, in realtà non emergesse una condotta di «sistematica sopraffazione» dell’imputato, ma soltanto un «altalenante rapporto» connotato dalla «morbosa gelosia» della persona offesa.

3. (omissis) (omissis) quale parte civile nel procedimento, con atto sottoscritto dal difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello, ai soli effetti civili, ai sensi dell’art. 576 cod. proc. pen., deducendo i motivi di seguito indicati.

3.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione anche agli artt. 220 disp. att. cod. proc. pen. e 63 e 191 cod. proc. pen. in quanto la Corte distrettuale, pur dando atto della credibilità della persona offesa, ha assolto l’imputato per insussistenza del fatto, ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen.:

a) omettendo l’esame delle testimonianze, pur valutate a riscontro dal giudice di primo grado, della madre di (omissis) (omissis) (omissis) e della psicologa (omissis) (omissis);

b) considerando positivamente le dichiarazioni del padre e della sorella dell’imputato secondo i quali la persona offesa lo assillava per farsi sposare e avesse inventato che l’uomo avesse un figlio da un’altra donna per non avere più rapporti sessuali con lui.

Il ricorso, dopo una dettagliata descrizione dei gravi maltrattamenti fisici e psicologi commessi dal (omissis) di danni della convivente  alla presenza del bambino piccolo, sottolinea che, nonostante l’uomo non avesse negato le violenze ai danni della compagna, ma al contrario le avesse giustificate in base ad una gelosia immotivata della donna, la sentenza aveva operato una forma di «vittimizzazione secondaria» accusando, in sostanza, (omissis) di non avere soddisfatto l’immagine cui deve corrispondere la persona offesa di questi reati, secondo stereotipi culturali interiorizzati come quello di avere provocato e di essersi cercata la violenza subìta, incluso il rifiuto di rapporti sessuali con il compagno.

3.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 572 cod. in quanto a fronte di una credibile testimonianza della persona offesa, non smentita dalla stessa sentenza impugnata e comunque riscontrata da plurimi elementi, la Corte di appello ha escluso la configurabilità di condotte vessatorie nei termini richiesti dall’art. 572 cod. pen. e ha qualificato l’abituale sofferenza patita da (omissis) una «relazione interpersonale molto turbata», causata dalla sua morbosa gelosia e dal suo rifiuto di avere rapporti sessuali con il compagno per un’ipotetica paternità di questi, nonostante la Corte di cassazione neghi che la provocazione, derivante dalle condotte della persona offesa, possa fungere da esimente del reato, peraltro abituale, e che vi sia compatibilità dell’art. 572 cod. pen. con lo stato d’ira.

3.3. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’art. 572 cod. pen., in relazione all’elemento soggettivo, in quanto la reazione della vittima, specie a fini di autodifesa personale, non esclude il reato, a meno che non travalichi i limiti di proporzione ed adeguatezza, e comunque l’interpretazione che impone alla persona offesa di accettare passivamente le vessazioni subite è illogica rispetto alla norma e ai diritti che tutela. Infine, anche l’intermittenza tra periodi di apparente normalità e di squilibrio non esclude il reato.

4. All’udienza del 30 marzo 2023 il processo è stato rinviato in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite sull’immediata applicabilità dell’art. 573, comma 1- bis, proc. pen.

5. In data 24 giugno 2023 è pervenuta memoria difensiva nell’interesse di (omissis) (omissis) in cui si è rilevata innanzitutto l’inammissibilità del ricorso ed in subordine la sua infondatezza in quanto la Corte di appello aveva correttamente valorizzato l’assenza di referti medici o testimonianze dirette delle violenze denunciate dalla parte civile, aveva qualificato queste ultime come normali litigi di coppia, da ritenersi questione di fatto sottratto al sindacato di legittimità, esaminando l’intera attività istruttoria.

Peraltro, la convivenza tra la ricorrente e (omissis) era stata breve, non continuativa e le condotte illecite erano state consumate dopo la sua cessazione, tanto escludere il reato di maltrattamenti.

6. Il giudizio di cassazione si è svolto a trattazione scritta, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, convertito dalla I. n. 176 del 2020 per come successivamente modificato, in mancanza di richiesta nei termini di discussione orale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato.

2. La giurisprudenza di questa Corte, valida anche per le parti civili ai fini delle domande risarcitorie, stabilisce che, allorché venga ribaltata, come nella specie, la condanna di primo grado, in forza del medesimo compendio probatorio, il giudice di appello è tenuto a rispettare il principio di diritto, sancito da S.U. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, secondo cui «deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva».

In sostanza, il giudice di appello deve spiegare, in modo adeguato e coerente, l’insostenibilità logica della ricostruzione e delle valutazioni effettuate nel precedente grado di merito.

Ciò deve avvenire da un lato, fornendo una compiuta giustificazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado; dall’altro lato, dando conto degli specifici passaggi logici idonei a conferire alla decisione una forza persuasiva superiore rispetto a quella riformata (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. 6, n. 14586 del 02/02/2021, Pozza, non mass.; Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056).

A fronte di una sentenza che ribalti la condanna di primo grado l’operazione ermeneutica richiesta dalla giurisprudenza di questa Corte consiste nel confutare le emergenze istruttorie poste dal Tribunale a fondamento dell’opposto assunto, non bastando una complessiva e parcellizzata lettura del materiale probatorio che non specifichi le evidenze ritenute decisive.

Applicando questi principi al delitto oggetto di esame, fondato essenzialmente sulle dichiarazioni della persona offesa, il giudice di secondo grado deve concentrare la propria valutazione sui fatti posti a base del contenuto narrativo di questa, vagliandone in modo puntuale la credibilità e l’attendibilità, per poi incrociarli con altre prove di riscontro, ove ve ne siano, e tenendo in doveroso conto di tutte le circostanze concrete della relazione maltrattante e della condizione di supremazia (economica, affettiva, psicologica, ecc.) dell’autore su cui essa si fonda.

3. A ciò si aggiunge che, in tema di valutazione della prova testimoniale, l’attendibilità della persona offesa dal reato è una questione di fatto che ha le sue chiavi di lettura in una motivazione ragionevole e compiuta, capace di dare conto soprattutto del contesto in cui si inserisce, che non può essere rivalutata in sede di legittimità salvo che emergano manifeste contraddizioni o illogicità che il ricorso ha puntualmente rappresentato.

Secondo l’ormai consolidato orientamento di questa Corte il giudice può trarre il proprio convincimento, in ordine alla responsabilità penale dell’imputato e alla ricostruzione del fatto, anche in base alle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che siano sottoposte a vaglio positivo la sua credibilità soggettiva e l’attendibilità intrinseca del suo racconto, in forza di idonea motivazione, senza la necessità di riscontri esterni (ex multis Sez. U. n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214; Sez. 6, n. 39578 del 04/10/2022, V., non mass.; Sez. 3, n. 6710 del 18/12/2020, n. 8342, F., Rv. 281005).

D’altra parte, la testimonianza della persona offesa è sorretta da una presunzione di veridicità, stante l’obbligo giuridico di deporre il vero ai sensi dell’art. 198 cod. proc. pen. per cui il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca consapevolmente il falso.

Ciò può avvenire soltanto quando vi siano specifici e concreti elementi in assenza dei quali egli deve presumere che il dichiarante, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza (Sez. 6, n. 39578 del 04/10/2022, V., non mass.; Sez. 3, n. 6710 del 18/12/2020, n. 8342, F., Rv. 281005; Sez. 3, n. 25429 del 13/07/2020, L., non mass.).

4. Alla luce di tali principi di diritto, tutti disattesi dalla sentenza impugnata, risulta come questa sia affetta dai profili di illegittimità addotti dal ricorso per I’evidente contraddittorietà logica, intrinseca agli argomenti adottati, frutto anche delle gravi omissioni nella valutazione delle prove e, in particolare, del contenuto della testimonianza della persona offesa.

5. Infatti, i giudici di appello hanno ritenuto «certamente credibili» le dichiarazioni della persona offesa e i singoli episodi ingiuriosi, umilianti, violenti e minacciosi posti in essere dall’imputato ai suoi danni, tali da averla costretta ad abbandonare, con il figlio piccolo, la casa familiare, senza però menzionarli e descriverli specificamente; senza collocarli in un contesto temporale e relazionale; senza tenere conto che essi fossero avvenuti prima ai danni di una donna in gravidanza e poi alla presenza di un bimbo piccolo {che costituiscono circostanze aggravanti pur non contestate nell’imputazione); senza considerare la sostanziale ammissione dei fatti da parte di (omissis) concludendo però, in modo apodittico e sbrigativo, per la mancanza di una «sistematica sopraffazione» necessaria per l’integrazione del delitto di maltrattamenti (pag. 3).

Per pervenire a detta conclusione la Corte di appello ha operato anche un’arbitraria ed incompleta descrizione delle prove assunte in primo grado.

Infatti, pur avendo menzionato come riscontro alle dichiarazioni di (omissis) la testimonianza della madre, che aveva personalmente assistito a diversi episodi violenti di (omissis) (omissis) nei confronti della figlia, anche con minacce di morte o danneggiando il passeggino del bambino, la sentenza impugnata ha valorizzato esclusivamente le testimonianze del padre e della sorella dell’imputato che, come da loro stessi ammesso, non avevano mai assistito ad episodi violenti o ingiuriosi del loro congiunto; e non ha esaminato o menzionato né la testimonianza della psicoterapeuta (omissis) né la sua consulenza, né le ammissioni dell’imputato circa le offese pronunciate nei confronti della convivente,

Anche la messaggistica whatsApp, trascritta nella sentenza di primo grado a supporto dell’entità delle violenze subite dalla vittima – tale da averle fatto passare «giornate infernali» che le avrebbero consentito di denunciarlo, ma non lo aveva fatto per dargli «un’altra opportunità» -, è stata invece genericamente valutata dalla Corte di appello, attraverso una formulazione assertiva e priva di qualsiasi supporto fattuale, come rappresentativa soltanto di «un altalenante rapporto tra le parti», di cui era responsabile la persona offesa per la sua «rilevante gelosia».

5.1. Alla luce di detti argomenti il vizio della motivazione risulta duplice: da un lato, a fronte di una testimonianza credibile, peraltro supportata anche da altre prove (la testimonianza della madre della persona offesa e la messaggistica whatsApp), su fatti rimasti sostanzialmente non contestati, la Corte di merito per escludere l’illiceità delle condotte di (omissis) si limita a mere asserzioni, non supportate da alcun ragionamento logico-giuridico, e omette di confutare i solidi argomenti contenuti nella sentenza di primo grado; dall’altro lato, in pieno contrasto con la disciplina nazionale e sovranazionale in materia di violenza domestica e la consolidata giurisprudenza, di legittimità e della Corte EDU, su questa sviluppatasi, ha ritenuto che i reiterati insulti, le botte, le aggressioni, i danneggiamenti e le minacce subite dalla vittima da parte del convivente, prive di «sistematica sopraffazione», esprimessero una mera abitualità «dei litigi nell’ambito della coppia».

5.2. Rispetto al primo profilo di illegittimità, derivante dal ribaltamento decisionale non motivato, si richiama la giurisprudenza di questa Corte, di cui ai parr. 2 e 3, che in assenza di qualsiasi argomento è stata disattesa dalla pronuncia

5.3. Con riguardo, invece, al secondo profilo, concernente la qualificazione giuridica dei fatti accertati, è opportuno richiamare, pur in sintesi, la ricca produzione, normativa ed interpretativa in materia di maltrattamenti contro familiari e conviventi che, diversamente da quanto erroneamente sostenuto dalla Corte di appello di Napoli, non ha come elemento costitutivo la «sistematica sopraffazione» e, comunque, non permette alcuna confusione del delitto con le «liti familiari».

5.3.1. Il reato di violenza domestica, non definito dal Codice penale, è ricondotto nell’art. 572 pen. secondo il quale la condotta è costituita dal maltrattamento di una persona della famiglia o comunque convivente (il convivente è stato inserito dalla I. n. 172 del 01 ottobre 2012, di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minorenni contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, detta Convenzione di Lanzarote), così non categorizzandosi, in modo univoco, le variegate e plurali forme in cui si esplica.

L’oggetto giuridico del reato e dei beni che esso garantisce, secondo un’esegesi costituzionalmente (artt. 2, 3, 32 Cast.) e convenzionalmente orientata {la Convenzione per l’eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione delle Donne, detta Cedaw, adottata dall’assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1979 e ratificata dall’Italia con la I. del 14 marzo 1985, n. 132, con I’ art. 16; la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, detta CEDU, con gli artt. 3 e 14; la Convenzione di Istanbul, con l’art. 3 e la Direttiva vittime 2012/29/UE), sono costituti dall’integrità fisica e morale, dalla dignità umana e dall’autodeterminazione della persona (Sez. 6, n. 9187 del 15/09/2022, dep. 2023, C., non mass.; Sez.6, n. 30340 del 08/07/2022, S., non mass.; Sez.6, n. 29542 del 18/09/2020, G., Rv. 279688; Sez. 6 n. 2625 del 12/01/2016, G., Rv. 266243).

La sentenza impugnata, a fronte di questo progressivo  ed importante apparato, legislativo e interpretativo, si limita a sostenere sinteticamente che per integrare il delitto è richiesta la «sistematica sopraffazione», ignorando l’orientamento, ormai consolidato di questa Corte, secondo il quale il reato di cui all’art. 572 cod. pen. è consumato allorché siano compiuti, anche in un limitato contesto temporale e nonostante periodi pacifici, vista la ciclicità che connota questo delitto (Sez. 2, n. 11290 del 03/02/2023, S., Rv. 284454) più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria, finalizzati a determinare sofferenze fisiche o morali della vittima (Sez. U, n.10959 del 29 gennaio 2016, P.O., Rv. 265893; Sez. 6, n. 3377 del 14/12/2022, dep. 2023, N., non mass.; Sez. 6, n. 19847 del 22/04/2022, M., non mass.; Sez. 3, n. 10378 del 08/01/2020, M., non mass.).

Il sostrato normativo sovranazionale su cui si fonda detta interpretazione, che non richiede l’illiceità in sé dei singoli episodi, è dato innanzitutto dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (detta Convenzione di Istanbul), ratificata senza riserve con I. 27 giugno 2013, n. 77, da ritenere il più importante strumento, giuridicamente vincolante, volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza che, nel suo Preambolo, richiamandone «la natura strutturale» la qualifica come «uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».

Attraverso questa chiave di lettura, dal respiro più ampio, per cui il diritto delle donne di vivere libere dalla violenza costituisce «un diritto umano» (art. 3 della Convenzione di Istanbul), diventa inammissibile l’interpretazione limitativa e ridimensionante della sentenza impugnata che confina il reato di cui all’art. 572 cod. pen. ai soli casi in cui vi siano «sistematiche» forme di violenza, senza peraltro indicare in cosa esse debbano consistere e con quale cadenza temporale.

Infatti, ciò che qualifica la condotta come maltrattante, in un quadro di insieme e non parcellizzato, è che i reiterati comportamenti, anche solo minacciati, operanti a diversi livelli (fisico, sessuale, psicologico o economico) nell’ambito di una relazione affettiva, siano volti a ledere la dignità della persona offesa, ad annientarne pensieri ed azioni indipendenti, a limitarne la sfera di libertà ed autodeterminazione, a ferirne l’identità di genere con violenze psicologiche ed umiliazioni (Sez. 6, n. 30340 del 08/07/2022, S., non mass.), in quanto il disegno discriminatorio che guida gli autori dei reati di violenza contro le donne è costituito dal deliberato intento di possesso, dominazione e controllo della libertà femminile per impedirla (Sez. 6, n. 28217 del 20/12/2022, dep. 2023, G., non mass.; Sez. 6, n. 27166 del 30/05/2022, C., non mass.).

Il giudice è, dunque, tenuto a valutare non solo gli episodi che ritiene soggettivamente più gravi, sol perché colpiscono l’integrità fisica o costituiscono specifici reati, ma diversamente da quanto avvenuto nella sentenza impugnata, deve valorizzare e descrivere, in modo puntuale, innanzitutto il contesto diseguale di coppia in cui si consuma la violenza, anche psicologica, praticata dall’autore ed il clima di umiliazione che impone alla vittima per lederne la dignità (Sez. 6, n. 27171 del 06/06/2022, F., non mass.).

5.3.2. La Corte di appello di Napoli, inoltre, riconosciuta l’esistenza «di alcuni singoli episodi aggressivi posti in essere dall’imputato» ai danni della convivente, quindi unilaterali di un soggetto ai danni dell’altro, senza descriverli per quantità e qualità, li ha trasformati in liti familiari («altalenante rapporto di coppia», «una relazione interpersonale molto turbata») così operando la normalizzazione di condotte anche illecite (minacce, violenze fisiche, danneggiamenti, ecc.) e prospettando come accettabili, fino a renderli giuridicamente legittimi, gli atteggiamenti sopraffattori, umilianti e gravemente discriminatori che si consumano nella relazione.

La confusione tra il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. e le ordinarie «liti» avviene quando non è presa in alcuna considerazione l’asimmetria, di potere e di genere, che esiste nel contesto di coppia o familiare oggetto di esame, ritenendola un dato neutro. È quanto avvenuto nella specie allorché la denigrazione della donna, la sua pubblica mortificazione con ingiurie gravi, le aggressioni subite con pugni e calci, la limitazione della sua libertà nell’avanzare richiesta di chiarimenti al proprio compagno sono state normalizzate a mero conflitto tra pari.

Detta attività qualificatoria si pone in contrasto innanzitutto con l’art. 3 Cost. che impone di ritenere le donne in una condizione paritaria, anche in fatto, rispetto agli uomini, dunque titolari del diritto alla dignità e alla libertà, diritti umani fondamentali, che non possono subire lesioni, neanche occasionali, o essere in qualche modo giustificabili in base ai costrutti sociali fondati sull’accettazione della disparità di genere.

Per questo il reato di cui all’art. 572 cod. pen., proprio in quanto reato abituale, impone innanzitutto l’accertamento delle condotte dell’autore e del dolo per poi inserirle nella dinamica della relazione tra autore e vittima, al fine di individuare I’ eventuale condizione di ordinaria gerarchia in cui si inscrivono i singoli e più gravi episodi che non necessariamente si sostanziano nella violenza fisica, assumendo, quella psicologica spesso una maggiore capacità traumatica in quanto incidente sull’identità e la dignità della persona offesa.

Il delitto di maltrattamenti è stato illogicamente scambiato dalla sentenza impugnata con le liti familiari sebbene la linea distintiva tra detti comportamenti sia chiara e marcata: si consuma il primo quando un soggetto impedisce ad un altro, in modo reiterato, persino di esprimere un proprio autonomo punto di vista se non con la sanzione della violenza o dell’offesa; mentre ricorrono le seconde quando le parti sono in posizione paritaria e si confrontano, anche con veemenza, su un piano di riconoscimento e di accettazione reciproca del diritto di ciascuno di esprimere il proprio punto di vista.

Alcuni criteri per cogliere la differenza sono, ad esempio, che vi sia o meno l’ascolto del giudizio e della volontà altrui; che la relazione sia consapevolmente e strutturalmente sbilanciata a favore di uno solo dei due in ragione dell’identità sessuale; che emerga o no un divario di potere fondato su costrutti sociali o culturali connessi ai ruoli di genere tali da creare modelli comportamentali fissi e costanti di prevaricazione; che una parte approfitti di specifiche condizioni soggettive (età, gravidanza, problemi di salute, disabilità) per esercitare anche un controllo coercitivo; che si ripeta o meno, con modalità prestabilite e prevedibili, la soccombenza sempre dello stesso soggetto attraverso offese o umiliazioni o limitazioni della sua libertà personale o di esprimere un proprio autonomo punto di vista; che la sensazione di paura per l’incolumità o di rischio o di controllo riguardi sempre e solo uno dei due anche utilizzando forme ricattatorie o manipolatorie rispetto ai diritti sui figli minorenni della coppia (Sez. 6, n. 19847 del 22/04/2022, M., non mass.).

In conclusione, la violenza avviene sempre e solo su un piano inclinato a favore dell’autore e gli esiti sono sempre unidirezionati a vantaggio di questi; mentre la conflittualità di coppia si sviluppa su un piano paritario, in cui i protagonisti si riconoscono reciprocamente come soggetti autonomi, dotati di dignità e libertà, e gli esiti del contrasto sono alterni, non prevedibili e tali da non ingenerare mai paura dell’altro.

6. Inoltre, con una inammissibile ed incongrua inversione dell’oggetto dell’accertamento penale, costituito dalle sole condotte maltrattanti dell’imputato, con conseguente irrilevanza dei comportamenti o delle reazioni della vittima ai fini della sussistenza del delitto (Sez. 6, 8729 del 18/01/2023, A., non mass.; Sez. 6, n. 11733 del 26/01/2023, F., non mass.; Sez. 6, n. 9187 del 15/09/2022, dep. 2023, C., non mass.; Sez. 6, n. 809 del 17/10/2022, dep. 2023, V. Rv. 284107; Sez. 6, n. 30340 del 08/07/2022, S., non mass.; Sez. 6, n. 19847 del 22/04/2022, M., non mass.), la Corte di merito ha attribuito alla persona offesa la responsabilità delle violenze subite per avere inteso conoscere se il convivente avesse un altro figlio, qualificando erroneamente detta condotta come gelosia. In tal modo si è operata una vera e propria distorsione logico-giuridica assumendo come legittimo il sistema punitivo di (omissis) con vessazioni e umiliazioni, per avere la donna disobbedito alla sua volontà di non porre domande e di non volersi prestare a consumare rapporti sessuali.

Come correttamente censurato dal ricorso, attraverso l’inversione dei piani della responsabilità di quanto oggettivamente accertato (violenze, minacce, umiliazioni, ecc.), la sentenza ha praticato una forma di vittimizzazione secondaria nei confronti della persona offesa, vietata dall’art. 18 della Convenzione di Istanbul nei termini indicati sia dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, civili, n. 35110 del 17/11/2021, Rv. 662942, parr. 5.3.7.4. e 5.3.7.5. e Sez. 6, n. 12066 del 24/11/2022, dep. 2023, T., non mass.) che dalle Corti sovranazionali (Corte EDU J.L. contro Italia 27 maggio 2021, parr. 140 e ss. in cui si ammonisce l’Autorità giudiziaria italiana dall’utilizzo di motivazioni che «espongano le donne alla vittimizzazione secondaria usando parole colpevolizzanti e moralistiche che potrebbero scoraggiare la fiducia della vittima nella giustizia» e pronuncia del Comitato CEDAW, F.C. contro Italia, n. 148 del 20 giugno 2022).

7. Gli altri motivi si ritengono assorbiti.

8. In conclusione, la fondatezza del ricorso impone l’annullamento della stessa, limitatamente agli effetti civili, ai sensi dell’art. 622 proc. pen., in quanto la costituzione di parte civile di (omissis) (omissis) è intervenuta in epoca successiva al 30 dicembre 2022 (data di entrata in vigore dell’art. 573, comma 1-bis, cod. proc. pen. ai sensi dell’art. 99-bis del d.lgs. n. 150 del 2022), con conseguente rinvio al giudice civile competente per valore, in grado di appello, cui è demandato di riesaminare i profili della decisione affetti dai vizi riscontrati e provvedere, altresì, alla regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità (Sez. U, del 25/05/2023, D.P.D.).

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili e rinvia per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Così deciso il 3 luglio 2023.

Depositato in Cancelleria, oggi 15 settembre 2023.

SENTENZA