Depistaggio: il dolo specifico richiede il fine di deviare le indagini, non basta lo scopo di corroborarle (Corte di Cassazione, Sezione VI Penale, Sentenza 9 agosto 2024, n. 32470).

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SESTA SEZIONE PENALE

Composta da

Dott. Giorgio Fidelbo – Presidente –

Dott. Anna Emilia Giordano – Consigliere –

Dott. Martino Rosati – Consigliere –

Dott. Fabrizio D’Arcangelo – Consigliere –

Dott. Ombretta Di Giovine – Relatore –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(omissis) (omissis), nato il xx/xx/19xx a (omissis) a (omissis);

avverso la sentenza del 22/09/2023 della Corte d’appello di Bologna;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Ombretta Di Giovine;

udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott Raffaele Piccirillo, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza limitatamente al reato di cui al capo b) e che sia dichiarata l’inammissibilità del ricorso nel resto;

udito l’Avvocato (omissis) (omissis), che ha chiesto l’accoglimento del ricorso

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Bologna confermava la condanna in primo grado di (omissis) (omissis) per i reati di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in certificati (art. 479 cod. pen.) (capo a, punti 1, 2, 3, 6) e depistaggio (art. 375, commi 1 e 2, cod. pen.) (capo b).

2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso l’imputato, per il tramite dell’Avv. (omissis) (omissis).

Il ricorrente premette come il Tribunale avesse operato una scorretta ricostruzione delle risultanze probatorie, attribuendo credibilità alle (seconde) dichiarazioni del Sovrintendente (omissis), nonostante questi fosse interessato ad ottenere, nel procedimento per il quale è stato separatamente giudicato, un’ingente diminuzione premiale della pena ex art. 375, comma 4, cod. pen., mentre il (omissis) si era limitato ad eseguirne gli ordini, senza adesione morale, a differenza di altri colleghi, pure assolti, e senza mai assumere iniziative personali.

Quindi, deduce vizio di legittimità e vizio di motivazione quanto alle deduzioni svolte nei motivi di appello principali e in quelli nuovi, quali di seguito elencate:

2.1. vizio di motivazione e travisamento della prova in particolare quanto alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni del coimputato (omissis) e dei testi/informatori (omissis) (omissis) e dei cittadini gambiani;

2.2. mancata valutazione degli elementi di prova a discarico dell’imputato.

2.3. motivazione soltanto apparente relativa all’affermazione/conferma della penale responsabilità dell’imputato;

2.4. erronea interpretazione dei fatti da parte della Corte d’appello;

2.5. insussistenza delle fattispecie contestate e difetto dell’elemento soggettivo in relazione al capo a);

2.6. errata applicazione dell’art. 479 cod. pen.;

2.7. vizio argomentativo e travisamento della prova nonché mancanza di motivazione (solo apparente) quanto alla conferma della responsabilità dell’imputato;

2.8. errata interpretazione dei fatti;

2.9. carenza di responsabilità dell’imputato per le fattispecie di false ideologico contestate; assoluto difetto degli elementi costitutivi del reato e, in particolare, dell’elemento soggettivo e difetto di prove;

2.10. mancata valutazione degli elementi di prova a discarico in relazione al capo b);

2.11. errata applicazione dell’art. 375, commi 1 e 2, cod. pen.;

2.12. violazione del principio di legalità e del divieto di interpretazione estensiva della norma incriminatrice (art. 375 cod. pen.);

2.13. vizio argomentativo e travisamento della prova, nonché difetto di motivazione (solo apparente) in ordine all’affermazione della responsabilità penale dell’imputato;

2.14. mancanza di valutazione degli elementi di prova a discarico.

Nonostante tali deduzioni in appello, i Giudici di secondo grado non hanno censurato il ragionamento meramente congetturale mediante il quale la sentenza del Tribunale era giunta ad affermare la responsabilità, senza raggiungere lo standard penalistico dell’«al di là di ogni ragionevole dubbio».

Non hanno attribuito, tra le altre cose, rilievo alla pubblica e palese dissociazione dell’imputato dalla condotta del Sovrintendente (omissis), limitandosi a stigmatizzare i motivi di impugnazione attraverso i quali veniva evidenziato come gli elementi di prova fossero stati cercati soltanto a carico del (omissis), sebbene il gruppo del capoturno (omissis) fosse composto da sei unità che svolgevano tutte i medesimi compiti operativi e di polizia giudiziaria.

Emblematici i seguenti elementi:

– quanto alla ‘vicenda dei pantaloni’, nonostante l’agente di polizia (omissis) avesse negato che (omissis) li indossasse, nei suoi confronti non è stata esercitata l’azione penale;

– i giudici di merito hanno ritenuto che il riconoscimento dei sospettati (mediante sottoposizione alle persone offese degli album fotografici formati dal (omissis)) fosse stato suggerito dall’imputato, anche se non vi era prova che le indicazioni del (omissis) avessero preceduto, e non seguito, l’individuazione stessa (nel secondo caso non avrebbe potuto essere esercitata alcuna suggestione);

– è stata ritenuta la presenza dell’imputato presso l’abitazione della teste (omissis) sulla base delle celle telefoniche, nonostante queste forniscano la posizione del telefono e quindi del suo utilizzatore in modo non esatto, ma con un’approssimazione che varia in un raggio di 7/8 km;

– è stata negata valenza probatoria alla perizia sugli spostamenti dell’imputato perché non avrebbe fornito alcuna indicazione sul periodo oggetto di interesse, laddove, invece, il telefono del ricorrente era indicato in stato di driving (in movimento) per 7,1 km, con tempo di percorrenza di 1.45 ore che, sommate all’orario iniziale (10:36), comportavano per tutto il tempo di interesse la certezza sulla localizzazione dell’imputato;

– l’identificazione da parte della teste di (omissis), quale persona che le avrebbe sottoposto gli album fotografici, è viziata perché alla donna furono sottoposte immagini in cui soltanto l’imputato aveva i capelli rasati, mentre il (omissis) – che la medesima Procura affermò somigliare fisicamente al (omissis) – era ritratto con i capelli, sicché – considerato anche che agli atti c’era la prova che il (omissis) era rientrato in Questura – era ben possibile che l’agente recatosi dalla teste per l’identificazione con la (omissis) – la cui responsabilità è stata peraltro esclusa, nonostante avesse posto in essere le medesime condotte – fosse (omissis) e non il ricorrente;

– è stato trascurato che dal dibattimento era emerso come fosse prassi dell’ufficio Volanti della Questura, allo scopo di velocizzare il lavoro e renderlo più efficiente, che ogni agente sovraintendesse ad un frammento dell’azione, per il resto confidando, in mancanza di elementi di sospetto, sulla corretta realizzazione del lavoro altrui. Pertanto, premesso che fu il (omissis) a dirigere tutti gli operatori del turno nell’attività investigativa sulle rapine, i giovani si affidavano al capoturno e alla sua esperienza, come dimostrato dagli screenshoot in atti;

– d’altronde, dal primo interrogatorio del Beltrami risultò che questi avesse la paternità assoluta delle indagini. Invece i Giudici di merito hanno fondato la condanna del (omissis) sulle ultime dichiarazioni spontaneamente rese da (omissis) il quale soltanto in un secondo momento attribuì la responsabilità ad altri soggetti suoi sottoposti/subordinati, senza che di tale chiamata in correità vi fossero riscontri oggettivi e certi;

– i Giudici di merito hanno erroneamente fondato la propria decisione anche sulle dichiarazioni contraddittorie e inverosimili, confutate dall’intero compendio probatorio, del teste (omissis) il quale nulla riferì circa i fatti del processo (ritrovamento pantaloni) e che è stato ritenuto attendibile a dispetto delle numerose sue reticenze e contraddizioni;

– i Giudici dell’appello hanno basato il proprio convincimento sulle dichiarazioni del coimputato nonostante fossero prive di riscontri estrinseci, invece richiesti dalla giurisprudenza di legittimità;

– attendibili sono state ritenute anche le dichiarazioni dei cittadini gambiani che, sebbene influenti, quantomeno, furono il risultato di domande suggestive;

– la Corte d’appello ha analizzato e valorizzato i soli elementi probatori dell’accusa ignorando quelli della difesa e ha valutato il compendio probatorio in modo parziale, sottovalutando le contraddizioni in cui sono incorsi il (omissis), i cittadini gambiani e l’agente (omissis). Sono stati violati i criteri di valutazione della prova di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., operando un’esegesi delle dichiarazioni degli informatori e del coimputato (omissis) soggettiva e suggestiva, nell’intento di colmare le lacune probatorie, senza raggiungere lo standard di certezza richiesto in materia penale.

In particolare, le dichiarazioni del coimputato Beltrami erano contraddittorie e non sono state, dunque, adeguatamente valutate.

Posto che, in tema di chiamata in correità, è necessario che le dichiarazioni etero-accusatorie siano caratterizzate da un’attendibilità intrinseca ed estrinseca, il chiamante deve essere valutato attendibile con riferimento a una serie di informazioni relative alla sua personalità, alla vita anteatta, ai rapporti con i chiamati in correità, alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione e all’accusa: laddove, nel caso di specie, il (omissis) si era determinato alle dichiarazioni etero-accusatorie solo dopo essere stato colto di sorpresa e aver rilasciato le prime dichiarazioni genuine e non pre-confezionate.

Quanto alla qualificazione del fatto ai sensi dell’articolo 375 cod. pen., non si ravvisa nella condotta contestata lo sviamento dell’indagine, dal momento che non vi è stato alcun cambiamento di direzione della stessa, essendo piuttosto contestato ai poliziotti di aver avviato un’indagine in una certa direzione perché sicuri dell’identità dei responsabili.

In virtù del favor rei, quindi, avrebbe dovuto, al più, essere contestato il delitto di false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria di cui all’art. 374-bis cod. pen.

Ancora, la condotta di cui all’art. 479 cod. pen. rientra nell’articolo 375 commi 1 e 2, cod. pen. poiché, secondo la tesi accusatoria, la falsità ideologica è consistita nelle condotte di depistaggio.

Dell’art. 375 cod. pen., peraltro, non risulta dimostrato l’elemento soggettivo:

che deve consistere nel dolo specifico di impedire, ostacolare o sviare un’indagine;

che distingue tale fattispecie da altre (artt. 374; 371-bis cod. pen.);

che va tenuto distinto dal dolo (generico) della condotta.

Infine, anche alla luce di quanto statuito da Sez. 6, n. 23375 del 10/07/2020, M., Rv. 279601, l’attività di immutazione, intesa come modificazione materiale idonea a generare il pericolo di inganno, deve riguardare il corpo del reato, lo stato dei luoghi delle cose o delle persone connesse al reato, sicché, in ragione del rapporto di specialità sussistente tra la fattispecie dell’art. 375 cod. pen. e quella dell’art. 374 cod. pen., deve concludersi che la ratio legis della prima consiste nella ricerca della verità giudiziaria e non nella tutela delle indagini processuali.

Nel caso di specie, non è stato dimostrato il contributo causale alla realizzazione dell’evento-reato (contributo che deve essere verificato ex post in termini condizionalistici) e comunque, anche a ritenere tale contributo configurabile, si sarebbe dovuta applicare la circostanza attenuante dell’art. 114 cod. pen., per la sua minima importanza, come risulta nel confronto con le condotte poste in essere dal coindagato (omissis), suo capoturno e diretto superiore gerarchico, e non avendo il (omissis) realizzato la condotta materiale.

Anche sotto tale profilo, i Giudici di secondo grado non hanno considerato come il ricorrente avesse originariamente predisposto un verbale di sequestro degli indumenti conforme a verità e che soltanto quando di ciò ebbe contezza il (omissis), come da questi confessato nelle sue prime dichiarazioni, lo riformulò.

Per ciò che concerne la personalità dell’imputato, le indagini preliminari hanno dato rilievo a conversazioni in cui sono stati decontestualizzati passaggi delle conversazioni, mentre vi era prova certa dell’abnegazione del (omissis) e del suo altruismo, non essendosi egli mai sottratto i propri doveri ed avendo anche messo a repentaglio la propria incolumità per adempiervi.

Peraltro, essendo stata esibita apposita documentazione in tal senso, la Corte d’appello avrebbe dovuto adeguatamente argomentare sul punto. Invece, si è sottratta, anche sotto questo profilo, al proprio obbligo motivazionale.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ai fini di una migliore comprensione delle deduzioni del ricorso e della presente motivazione, si impone preliminarmente una breve ricostruzione dei fatti per come accertati dalle sentenze di merito (che, trattandosi di c.d. “doppia conforme”, formano un unico corpo motivazionale. Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218).

Il Sovrintendente (omissis) dell’Ufficio Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico della Polizia di Stato (giudicato separatamente), insieme ad altri due agenti tra cui l’assistente capo (omissis), descritto dai Giudici di merito come il più anziano ed esperto, ritenendo di aver individuato in due persone di etnia gambiana gli autori di alcune rapine commesse a Reggio Emilia, falsificarono variamente le prove al fine di rendere sostenibile l’ipotesi accusatoria nei confronti di due indiziati.

Nella sentenza di primo grado si precisa che le indagini consentirono «di acclarare che le ragioni della commissione dei delitti di falso e di frode in processo penale e depistaggio hanno trovato terreno fertile proprio nella pressione emotiva correlata alla volontà di assicurare al più presto i colpevoli alla giustizia, nonché una certa vena agonistica, correlata alla volontà di mostrare la propria bravura investigativa, anche in termini di quantità di arresti e fermi effettuati». In particolare, quanto alle condotte di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.), risulta accertato che:

– il (omissis) formò un verbale precompilato e un poliziotto le cui fattezze furono ritenute corrispondenti a quelle del (omissis) raggiunse la teste (omissis) (vittima di una delle rapine) presso l’abitazione del suo compagno per farglielo firmare (capo a, punto 1). La teste affermò, successivamente, che il (omissis) le indicò una foto affermando «noi crediamo che sia lui» (dichiarazioni avvalorate anche dal (omissis));

– il (omissis) e una collega ((omissis)) raggiunsero un’altra teste (anch’ella) vittima di rapina in ospedale dove era ricoverata per le lesioni, sottoponendole anche in questo caso un verbale precompilato (capo a), punto 2);

– in entrambi i casi, la falsità riguardò sia il luogo in cui il verbale risultava compilato (Questura), sia il fatto che il (omissis) risultasse presente, il che non corrispondeva al vero;

– il (omissis), inoltre, compilò e sottoscrisse due distinti verbali di sequestro probatorio a carico rispettivamente dei gambiani (omissis) e (omissis) (questi, erroneamente in origine individuato in altra persona, e cioè nel (omissis); da tale errore prese l’avvio l’indagine nei confronti dei poliziotti) in cui si riportava che costoro, in occasione del fermo, indossassero abiti – descritti dalle vittime delle rapine e ripresi dalle telecamere – diversi da quelli realmente indossati al momento del fermo e che uno dei due (il (omissis), poi identificato nel (omissis)) consegnò spontaneamente i suoi pantaloni – corrispondenti alla descrizione che ne aveva fatto una teste – prima di essere condotto agli uffici della Questura (capo a, punti 3 e 6), mentre gli indumenti in oggetto erano stati rinvenuti dai poliziotti in una sorta di discarica di vestiti dismessi nei pressi dell’area (“ex officine reggiane”) dove i due gambiani dormivano.

A tali ultime condotte si riferisce altresì la condanna per il delitto di depistaggio di cui all’art. 375 cod. pen., di cui al capo b) di imputazione.

2. Si prescinde qui da ogni considerazione sulla tecnica di redazione del ricorso, che rasenta l’inammissibilità poiché accomuna sotto un unico motivo – concernente in modo confuso sia la violazione di legge, sia il vizio di motivazione (quest’ultimo indifferenziatamente sotto il profilo dell’assenza/parzialità come anche dell’illogicità/contraddittorietà) – una pluralità eterogenea di deduzioni, il che impedisce di sviluppare una risposta organica su ogni singolo punto.

2.1. D’altronde, appare assorbente la considerazione che la massima parte di tali deduzioni (ad eccezione di quelle che richiamano i motivi di appello nel ricorso numerati come 5, 6, 11 e 12) sub specie di violazione di legge e vizio motivazionale (talvolta anche travisamento della prova) mira, invece, a sollecitare un apprezzamento del compendio probatorio non consentito in sede di legittimità, essendo stato già valutato dai Giudici di merito con argomentazione completa e tutt’altro che illogica. Né – è il caso di precisare – si ravvisa l’eccepito travisamento della prova.

Infatti, secondo il pacifico orientamento di questa Corte, il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece:

a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento;

b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza;

c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda;

d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085).

Viceversa, nel caso di specie, le deduzioni difensive relative all’accertamento del fatto non sono in grado di decostruire il solido impianto argomentativo delle sentenze di merito. Invero, quanto all’identificazione dell’imputato nell’agente che sottopose e fece firmare alle testi (omissis) e (omissis) (vittime delle rapine) il verbale precompilato (capo a, punti 1 e 2) – classica questione “di fatto” – la sentenza impugnata ha valorizzato le dichiarazioni del Sovrintendente (omissis) – la cui attendibilità è stata ampiamente indagata soprattutto in primo grado -, riscontrate dalle testi citate. Per il resto, è indubbio che, essendo stati i verbali firmati il primo a casa del compagno della (omissis), il secondo nell’ospedale dove la (omissis) era ricoverata per curare le ferite cagionate dal rapinatore, e in assenza del (omissis), l’imputato dovesse essere a conoscenza di tali circostanze.

Analogamente, quanto ai verbali di sequestro degli indumenti dei gambiani (capo a, punti 3 e 6), in disparte la discordanza rilevata dai Giudici di merito tra le dichiarazioni del (omissis) e quelle della collega (omissis), resta il fatto che nei verbali di sequestro era attestato che gli indumenti (una felpa arancione nel caso del (omissis) e calzoni verdi per il (omissis)) erano indossati dai sospettati al momento del fermo, mentre alcuni testi (tra cui il collega (omissis), agente con funzioni di autista del (omissis)) riferirono che, tempo prima, i poliziotti si erano recati presso le “ex Officine Reggiane”. Che qui fossero stati recuperati gli abiti in una specie di discarica è stato ammesso dal (omissis) e inconfutabilmente dimostrato – precisa la sentenza del Tribunale – dall’invio da parte del (omissis) al (omissis), di una foto, almeno mezz’ora prima dell’intervento sfociato nel fermo a carico di (omissis).

Tale immagine, infatti, riproduceva la felpa in oggetto appoggiata stesa sul pavimento e, pertanto, ne provava la disponibilità presso gli agenti, verosimilmente all’interno dei locali della Questura dove il (omissis), a quell’ora, ancora non era giunto (d’altronde, una foto successiva mostra lo stesso (omissis) con la canottiera – e quindi senza la felpa – indosso al momento del fermo).

Del pari significativi sono ritenuti dai Giudici di merito i messaggi che (omissis) scambiò via Whatsapp con il (omissis), mediante i quali i due confermarono la diversa versione da fornire in via ufficiale e da cui si desume la convinta adesione del ricorrente al “piano” concordato (il (omissis), nel rispondere ad un messaggio vocale del Sovrintendente, con il quale questi mirava a concordare la versione da offrire negli atti di polizia giudiziaria, rispondeva inequivocabilmente dapprima «sì» e poi «m piac»).

2.2. Sicché è impossibile dubitare, in punto di diritto, della sussistenza del dolo in capo al (omissis).

Analogamente, è inequivocabile che l’imputato – peraltro, come rilevato dalle sentenze di merito e ricordato in questa sede, assistente-capo, anziano in servizio e dotato di esperienza – non abbia agito perché assoggettato al ruolo del suo superiore (o perché riponesse affidamento nelle sue direttive): assoggettamento che, quand’anche configurabile in fatto, sarebbe stato irrilevante dal punto di vista giuridico, non potendo trovare, nel caso di specie, applicazione l’art. 51 cod. pen., inerente ai soli ordinamenti verticistici militari (tale non è quello della Polizia di Stato) e che comunque nega la propria efficacia esimente ove gli ordini impartiti dal superiore gerarchico siano – come sarebbe accaduto nel caso in oggetto – illegittimi (mentre, l’affidamento nell’altrui operato è tout court irrilevante nei delitti dolosi).

Prima ancora, da tali elementi s’inferisce in termini netti il contributo causale (addirittura materiale) offerto dall’imputato alla realizzazione dei fatti e la essenzialità dello stesso, nessuno spazio residuando, dunque, per la configurabilità dell’art. 114 cod. pen., e cioè del “contributo causale di minima importanza”.

Peraltro, la Corte di appello – sebbene con riferimento all’elemento soggettivo – valorizza il fatto che il (omissis) non soltanto avesse realizzato i falsi nei verbali d’identificazione fotografica ad opera delle vittime dei delitti di rapina, ma – di più – non avesse esitato a porre in essere un pesante condizionamento nei confronti di una di esse, suggerendole il soggetto da riconoscere in quanto sospettato del reato.

Con la conseguenza che l’asserita omessa risposta alle deduzioni in tema di contributo causale nel concorso di persone comunque non vizierebbe, per la sua manifesta irrilevanza, la motivazione del procedimento impugnato. Così come nessun rilievo avrebbe – è il caso di precisare in conclusione sul punto – quanto deciso dai Giudici di merito in rapporto alla posizione dei colleghi del ricorrente, trattandosi, anche in questo caso, di valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità in assenza di evidenti illogicità.

3. Da approfondire, invece, il tema della configurabilità del delitto di frode in processo penale e depistaggio di cui all’art. 375 cod. pen., contestato come immutazione artificiosa dello stato delle cose connesse al reato e fatto segnatamente consistere nella formazione di falsi verbali di sequestro di cui al capo a) nn. 3) e 6), nonché delle annotazioni di polizia giudiziaria ad esse susseguenti, al fine di sviare le indagini.

3.1. Sul punto, va innanzitutto precisato che, per espressa indicazione legislativa, il c.d. depistaggio può avere ad oggetto, oltre al processo penale, anche «un’indagine», come nel caso in esame, e che – contrariamente a quanto parrebbe affermato, in modo invero poco chiaro, in un passaggio del ricorso – pochi dubbi residuano altresì sulla configurabilità, sempre nella vicenda in oggetto, del necessario nesso funzionale tra la condotta e la qualifica pubblicistica dell’agente, essendo il (omissis) proprio uno degli agenti incaricati dell’indagine sulle rapine per la quale si stava procedendo (nonostante l’apparente silenzio sul punto dal legislatore, tale nesso funzionale è richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte almeno quando – come appunto nel caso di specie – le investigazioni siano già iniziate. Sez. 6, n. 7572 del 27/01/2023, Caraccio; Rv. 284269; in termini generali, Sez. 6, Sez. 6, n. 34271 del 27/04/2022, Paccione, Rv. 283727).

3.2. Tanto specificato, e premesso altresì che l’art. 375 cod. pen. contempla sia l’ipotesi di c.d. depistaggio materiale (art. 375, comma 1, lett. a, cod. pen.), sia quella di c.d. depistaggio dichiarativo (art. 375, comma 1, lett. b, cod. pen.), la sentenza di primo grado aveva inquadrato le condotte di falsità nella redazione dei verbali di sequestro sia nel falso ideologico di cui all’art. 479 cod. pen., sia nel depistaggio c.d. materiale, ricostruito come ipotesi speciale rispetto all’art. 374 cod. pen. e che, argomentando dalla circostanza aggravante di cui all’art. 375, comma 2, cod. pen. (a mente della quale «se il fatto è commesso mediante […] la formazione o artificiosa alterazione, in tutto in parte, di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova o comunque utile alla scoperta delle reato o al suo accertamento»), riteneva potesse avere ad oggetto un documento rappresentante cose non vere.

Il Tribunale aveva, in particolare, inferito che la «artificiosa immutazione» potesse concernere anche “solo” la documentazione di un determinato stato, in modo da poterla impiegare come “elemento di prova” (purché idonea – come nel caso di specie – ad influire sulla formazione dl convincimento giudiziale) e che, a differenza che nei falsi del capo a), nella vicenda in oggetto l’alterazione avesse riguardato l’esposizione dello “stato” della cosa sottoposta a sequestro (felpa o pantalone verde) nei profili che la correlavano al reato “elemento di prova”, mentre l’elemento soggettivo sarebbe consistito nel precostituire prove false «al precipuo fine di aggravare sensibilmente il compendio altrimenti disponibile nei confronti [degli indagati] e ottenere così provvedimenti restrittivi della libertà personale a carico dei medesimi o comunque offrire un più solido e strutturato compendio probatorio».

Il Tribunale, dunque, esauriva il fatto di depistaggio c.d. materiale nella formazione dei documenti/verbali ideologicamente falsi.

Dal canto suo, la Corte d’appello ha ravvisato il reato in oggetto nella «formazione di un documento ideologicamente falso, perché attestante che il bene non è stato rinvenuto in un certo luogo, ma è stato trovato indosso ai sospettati» (dal che, ancora, la configurabilità dell’ipotesi aggravata, il fatto essendo stato realizzato «mediante la formazione del documento che attesta un fatto non vero basato su una immutazione materiale»).

I Giudici di secondo grado hanno però anche valorizzato la simulazione o dissimulazione della realtà effettiva realizzata mediante un diretto intervento sulla stessa, così da sostituirvi una realtà artificiosa, non coincidente con quella che costituisce l’esatta riproduzione delle tracce e delle conseguenze del delitto commesso.

Hanno, in particolare, espressamente individuato la condotta tipica dell’art. 375 cod. pen. altresì nell’aver prelevato da un mucchio i vestiti abbandonati in un’area dismessa (felpa e pantaloni) ed averli portati via, ritenendo sufficiente, ai fini del dolo, la possibile incidenza della condotta di immutazione sulla indagine in corso.

3.3. Nessuna delle due costruzioni può essere condivisa.

Non certamente quella del Giudice di primo grado, per parte sposata in secondo grado, che integra una non consentita interpretazione analogica in malam partem.

Infatti, come emerge sin dalla contraddizione terminologica, il depistaggio ‘materiale’ non può consistere in un falso ‘ideologico’, dovendosi ritenere che l’immutazione dei documenti, presa in considerazione nella circostanza aggravante dell’art. 375, comma 2, cod. pen. (in rapporto di specialità con l’ipotesi base di reato e quindi sicuramente in essa rientrante), si sostanzi, appunto, di una contraffazione o alterazione del documento (oltre che nella sua distruzione, soppressione, occultamento ecc.), e non della dichiarazione difforme dalla realtà in esso contenuta.

D’altronde, la falsità ideologica rileva ai fini del depistaggio, ma ai sensi dell’art. 375, comma 1, lett. b), ovvero come c.d. depistaggio dichiarativo.

Si tratta, tuttavia, di fattispecie differente, modulata, mutatis mutandis, sulla falsariga degli altri, limitrofi falsi dichiarativi.

Il testo della disposizione impone, infatti, che il soggetto attivo (pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio) sia stato «richiesto dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria di fornire informazioni in un procedimento penale»; presuppone, quindi, una sollecitazione esterna cui il soggetto deve rispondere; descrive, con parole ancora diverse, un contesto situazionale per nulla sovrapponibile a quello in cui si sono inverate le condotte oggetto del presente giudizio (falso nella verbalizzazione), che invece rientravano nei poteri/doveri del (omissis) e nella normalità dei compiti di polizia giudiziaria.

In conclusione, e salvo quanto di seguito rilevato in punto di dolo (specifico), la redazione di un verbale in cui si rappresenti una realtà difforme da vero non è riconducibile né al depistaggio materiale né al depistaggio dichiarativo, integrando, piuttosto, diverse ipotesi di reato (nel caso di specie, l’art. 479 cod. pen., come peraltro riconosciuto dai Giudici di merito).

Non a caso, i Giudici di secondo grado, come ricordato, hanno modificato la rotta interpretativa, configurando il depistaggio c.d. materiale: in parte, sulla falsariga di quanto argomentato dal Tribunale, per effetto della falsa verbalizzazione (così confermando la circostanza aggravante, invero di dubbia configurabilità astratta); in parte, come immutazione ‘diretta’ della realtà, ravvisata nello spostamento degli abiti degli indagati da un luogo (la “discarica di indumenti” delle “ex officine reggiane”) ad un altro (la Questura).

In relazione a tale secondo segmento fattuale, la Corte d’appello ha assunto una nozione lasca del riferimento legislativo all’immutazione artificiosa dello «stato dei luoghi» o delle «cose […] connessi al reato» – tale di comprendervi elementi sprovvisti di stretta attinenza con l’ipotesi probatoria, ma comunque suscettibili di corroborarla – ed ha proposto, quindi, un’interpretazione forse estensiva della fattispecie, che però non esonda dal perimetro della tipicità del reato e che pertanto, sotto questo specifico aspetto, non risulta censurabile. Il difetto di tipicità è altrove.

Al di là dei rilievi poc’anzi svolti sulla dubbia sussumibilità della verbalizzazione falsa nel depistaggio c.d. materiale, anche in relazione alla restante condotta di “inquinamento” valorizzata dalla sentenza impugnata, nel caso di specie manca, infatti, l’elemento della fattispecie dell’art. 375 cod. pen. rappresentato dal dolo specifico di «impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale».

3.4. Su tale locuzione – sulla quale non si è finora espressa la giurisprudenza di legittimità né, per quanto consta, la dottrina – occorre, dunque, concentrare l’attenzione.

Le sentenze di merito assumono che la finalità in oggetto sia integrata anche per il caso in cui l’immutazione tenda a rafforzare il compendio probatorio disponibile e cioè quando il pubblico ufficiale agisca per corroborare o consolidare il corso delle indagini – come nel caso di specie – o il quadro dibattimentale, facendo coincidere lo stato (delle cose, delle persone o dei luoghi) apparente con quello reale. Una siffatta lettura non è esclusa dal dato letterale («sviamento») e colpirebbe condotte anche gravi e meritevoli di pena, essendo noto che la tutela della verità della prova si estende alla tutela dei diritti che tale prova mira a tutelare.

Essa, però, non è l’unica possibile, il concetto di «sviamento» potendo essere declinato anche secondo un’accezione – fermo il carattere solo indicativo della distinzione – più “sostanziale” che “processuale”. In tale prospettiva, assurgerebbero a rilevanza penale le sole condotte volte a indirizzare verso un esito giudiziario diverso da quello corrispondente alla realtà fattuale per come fotografata allo stato delle indagini o del dibattimento.

La finalità dell’art. 375 cod. pen. sarebbe, cioè, integrata soltanto là dove l’agente, attraverso il comportamento decettivo, miri a mutare il corso delle indagini o il quadro probatorio, contraddicendo l’ipotesi investigativa o gli elementi già raccolti.

3.5. A questa seconda e più “restrittiva” lettura del dato testuale aderisce il Collegio, per le ragioni di seguito brevemente esposte, tra loro connesse.

L’interpretazione proposta, innanzitutto, risponde meglio alle intenzioni storiche (ancora abbastanza recenti) del legislatore che, quando introdusse (I. 11 luglio 2016, n. 133) la fattispecie, aveva di mira uno scenario criminologico particolare, intendendo fornire risposta a comportamenti volti ad occultare la responsabilità di uomini di Stato in relazione a condotte che mettevano a repentaglio l’ordine pubblico, se non l’assetto democratico. Guardava, cioè, a ipotesi ben diverse – sul piano empirico – rispetto a quelle considerate dai Giudici di merito.

Peraltro, se è vero che, rispetto alle intenzioni legislative originarie, l’area della tipicità della fattispecie dell’art. 375 cod. pen. si ampliò considerevolmente, va anche considerato – e questa è la seconda ragione che milita a sostegno dell’impostazione qui sposata – che si tratta di fattispecie comunque gravemente punita, sicché ad essa vanno riferite condotte che manifestino una correlata gravità.

Gli editti di pena predisposti dal legislatore per la fattispecie di depistaggio, da tre a otto anni di reclusione, sono infatti ben più severi di quelli comminati dalle finitime fattispecie di falso (artt. 371-bis, 372, 373, 374-bis, 378 cod. pen.) e di frode processuale (art. 374 cod. pen.), il che non può che orientare verso una lettura costituzionalmente conforme rispettosa del principio di proporzione e attenta alla valorizzazione del principio di offensività. In terzo luogo, tale lettura salvaguarda la caratterizzazione della fattispecie in chiave di dolo specifico (la cui cifra consiste nel fatto di essere “extra- fattuale”, e cioè di proiettarsi su un elemento non richiesto ai fini dell’integrazione della tipicità oggettiva), che è probabilmente il tratto specializzante di maggior rilievo rispetto alle altre ipotesi di reato confinanti.

Diversamente, infatti, la costruzione in chiave di dolo specifico dell’art. 375 cod. pen. verrebbe meno, atteso che la consapevolezza della falsità dichiarativa o della immutazione “artificiosa”, vieppiù se realizzata da un soggetto che riveste una qualifica soggettiva pubblicistica (il delitto è un reato proprio), e pertanto presumibilmente dotato di conoscenze particolari, recherebbe naturalmente con sé anche la coscienza di alterare il quadro della verità processuale.

Infine – si tratta di considerazione riassuntiva delle precedenti -, l’opzione interpretativa proposta in questa sede appare più rispettosa della sussidiarietà della tutela penale e, quindi, più perspicua nel contesto della definizione dei rapporti tra la fattispecie in oggetto e altri delitti a tutela dell’autorità giudiziaria o della fede pubblica: in particolare, del rapporto tra l’art. 375 cod. pen. e il meno grave art. 374 cod. pen.

4. Va, in conclusione, affermato il principio di diritto secondo cui, ai fini della sussistenza del dolo specifico dell’art. 375 cod. pen., occorre che il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbia agito con l’intenzione di deviare l’indagine o il processo rispetto al corso in origine da essi assunto, non essendo invece sufficiente il fine di corroborare o consolidare indagini o elementi probatori già acquisiti, in presenza del quale configurandosi eventualmente diverse (e meno gravi) ipotesi di reato.

5. Nel caso di specie, le sentenze di merito in più punti insistono sul fatto che l’agente (omissis) non volle impedire, ostacolare o sviare un’indagine, bensì corroborare elementi di cui la polizia giudiziaria già disponeva e che deponevano nel senso della responsabilità dei cittadini gambiani, allo scopo di dimostrare la propria abilità investigativa e per un distorto senso di competizione.

Al di là delle denunciate difficoltà relative all’inquadramento della falsa verbalizzazione nella tipicità oggettiva dell’art. 375 cod. pen., difetta, quindi, nel caso di specie, la tipicità soggettiva, avendo il ricorrente agito non con il dolo specifico di sviare le indagini dal corso già intrapreso ma, esattamente al contrario, per confermare/consolidare tale corso.

6. La sentenza va, dunque, annullata perché il reato di frode in processo penale e depistaggio (art. 375 cod. pen.), di cui alla lett. b) del capo di imputazione, non sussiste.

Tale formula s’impone perché, sul piano della teoria del reato, il dolo specifico, pur indicando le finalità per cui il soggetto agisce (e, quindi elementi afferenti alla sfera soggettiva), rappresenta, come detto, un elemento specializzante (in particolare: di ulteriore tipizzazione) che compare nella descrizione della fattispecie astratta.

Esso è, pertanto, costitutivo della tipicità – già sul piano oggettivo – del reato. Di conseguenza, il suo mancato inveramento non consente di ritenere tale tipicità integrata, al pari di quanto accadrebbe per l’assenza di qualunque altro suo elemento.

7. Essendo stato il ricorso, per il resto, rigettato, da ciò consegue la declaratoria di irrevocabilità della responsabilità penale in ordine alle ipotesi di falso ideologico in atto pubblico (art. 479 cod. pen.).

8. L’annullamento va disposto con rinvio ai fini della rideterminazione della pena, ogni ulteriore deduzione difensiva risultando assorbita.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento al reato di cui all’art. 375 cod. pen. perché il fatto non sussiste; rigetta nel resto il ricorso e dispone la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna per la rideterminazione della pena del residuo reato.

Visto l’art. 624 cod. proc. pen., dichiara irrevocabile la sentenza relativamente alla responsabilità di (omissis) (omissis) per il reato di cui all’art. 479 cod. pen..

Così deciso il 20/06/2024.

Depositato in Cancelleria il giorno 9 agosto 2024.

SENTENZA – copia non ufficiale -.