L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CATERINA MAROTTA – Presidente –
Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO – Consigliere –
Dott. ANDREA ZULIANI – Consigliere –
Dott. SALVATORE CASCIARO – Consigliere –
Dott. ANTONELLA FILOMENA SARRACINO – Rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
sul ricorso 14177-2018 proposto da:
(omissis) (omissis) in persona del Presidente, pro tempore, elettivamente domiciliata in (omissis) (omissis) presso la SEDE DELL’AVVOCATURA REGIONALE, rappresentata e difesa dall’avvocato (omissis) (omissis);
– ricorrente –
contro
(omissis) (omissis) (omissis), elettivamente domiciliata in (omissis) presso lo studio dell’avvocato (omissis) (omissis) che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4686/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 23/11/2017 R.G.N. D 726/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/11/2023 dal Consigliere Dott. ANTONELLA FILOMENA SARRACINO.
RILEVATO CHE
1. Con ricorso del (omissis), (omissis) (omissis) adiva il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, chiedendo di accertare e dichiarare l’inesistenza, l’illegittimità, l’inefficacia del licenziamento orale comminatole il (omissis) e, per l’affetto, condannare il datore di lavoro – (omissis) (omissis) – al pagamento in suo favore di tutte le spettanze maturate fino al (omissis) per un totale di € 18.326,40.
2. Il giudice di primo grado rigettava ogni domanda con condanna al pagamento delle spese di lite.
3. La Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della pronunzia di prime cure, ferma nel resto, rilevato il passaggio in giudicato del capo della sentenza relativo alla legittimità del licenziamento, condannava la parte datoriale al pagamento in favore (omissis) (omissis) (omissis) della somma di complessivi € 14.409,25 a titolo di: indennità di malattia per il periodo dal (omissis) al (omissis), tredicesima mensilità, T.F.R. e ferie non godute.
4. Avverso detta pronunzia proponeva ricorso per cassazione (omissis) (omissis) articolandolo in tre motivi.
5. Resiste con contro (omissis) (omissis) (omissis)
6. Per (omissis) (omissis) in sostituzione del precedente difensore, avv.to (omissis) (omissis), si costituiva l’avv.to (omissis) (omissis).
7. Entrambe le parti depositavano memorie.
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo si deduce la violazione, falsa applicazione ed erronea interpretazione degli 2120 e 2118 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
In estrema sintesi si sostiene l’inapplicabilità delle norme innanzi richiamate ai rapporti di lavoro a tempo determinato – qual e quello all’attenzione (rapporto a tempo determinato part-time verticale)- in quanto la temporaneità del rapporto e incompatibile con l’istituto del comporto e con la conservazione del posto di lavoro durante la malattia.
1.1. Il motivo é infondato e va rigettato.
A tal riguardo basta rilevare che la lettera dell’art. 2110 c.c. non limita affatto la previsione del comporto – periodo di malattia in cui il datore non può recedere dal rapporto di lavoro – a quelli a tempo indeterminato, sicché, stante la ratio dell’istituto, esso, a maggior ragione, deve trovare applicazione per i rapporti temporanei che sono meno garantiti e necessitano senza dubbio di miglior tutela.
Ogni interpretazione in senso contrario, peraltro, si porrebbe in aperto contrasto con il diritto unionale e, nello specifico, con il principio di non discriminazione di cui alla clausola 4 dell’Accordo quadro sul rapporto a tempo determinato, recepito dalla direttiva n. 1999/70/CE.
1.2. Conseguentemente, anche ai rapporti di lavoro a tempo determinato vanno applicati i principi enucleati e stratificati nel tempo dalla giurisprudenza di legittimità: il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, e nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c. (in tal senso Cass. n. 12568/2018, rv. 648651-01, conf. a Cass. n. 24525/2014, rv. 633476-01) e dunque non produce alcun effetto.
1.3. Nel caso di specie, non più in discussione la legittimità dell’atto di recesso – caduto il giudicato su detta questione – corretto, per quanto qui interessa, e il rilievo del giudice territoriale secondo cui il licenziamento e privo di
Resta irrilevante, nel caso specifico qui all’attenzione, infatti, che la Corte territoriale non abbia fatto discendere l’inefficacia dall’accertamento della nullità dell’atto datoriale – evidentemente – implicitamente aderendo ad un pregresso orientamento giurisprudenziale secondo cui l’inosservanza del divieto di licenziamento del lavoratore in malattia, fino a quando non sia decorso il cosiddetto periodo di comporto (art. 2110, comma secondo, cod. civ.), non determina di per se la nullità del licenziamento, ma, in applicazione del principio della conservazione degli atti giuridici (art. 1367 cod. civ.), la temporanea inefficacia del recesso stesso fino alla scadenza della situazione ostativa (cfr. in tal senso, Cass. n. 9037/2001, rv. 547888-01).
1.4. All’inefficacia del licenziamento affermata dalla Corte di Appello, non può che conseguire – avendo provato la lavoratrice lo stato morboso dal (omissis) secondo la ricostruzione in fatto operata nella sentenza di appello, non più rivedibile – il perdurare del rapporto di lavoro fino alla data di guarigione, con tutte le conseguenze in tema di diritto agli emolumenti retributivi.
2. Con il secondo mezzo si denunzia la violazione, falsa applicazione ed erronea interpretazione degli 115, 116 e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
Si censura la sentenza impugnata quanto al riconoscimento delle varie voci stipendiali sotto il profilo dell’an e del quantum, per non aver il giudice a quo attentamente valutato le prove documentali a sua disposizione, violando cosi gli artt. 115 e 116 c.p.c. oltre che – con riguardo ad alcune voci stipendiali – l’art. 112 c.p.c.
2.1. Quanto all’indennità di malattia, la ricorrente insiste che la stessa – se non accolto il primo motivo – spetterebbe per il più breve periodo dal quello più lungo – dal (omissis) (omissis) anziché per – in relazione al quale é stato liquidato e ciò in quanto fino al (omissis) la lavoratrice era ancora in servizio e regolarmente retribuita, essendo stata disposta la revoca dell’incarico solo con atto di organizzazione n. (omissis) del (omissis) con decorrenza (omissis).
Si duole, altresì dell’erroneità dei calcoli disposti dalla Corte territoriale in relazione a detta indennità, in quanto essi non sarebbero stati parametrati al part-time al 50%, essendo stato effettuato il calcolo con riferimento, invece, alla retribuzione piena al 100%.
2.2. Con riguardo alla tredicesima, la ricorrente sostiene la sufficienza dei documenti versati in atti (cedolino con Iban della lavoratrice), al fine di dimostrare l’avvenuto pagamento di detto emolumento. Evidenzia il differente parametro di giudizio usato dal giudicante nella valutazione della prova con riferimento al pagamento della tredicesima per gli anni 2010 e 2011.
Assume altresì l’erroneità della decisione in relazione al quantum, atteso che l’importo riconosciuto e liquidato a titolo di tredicesima sarebbe quello relativo agli anni dal 2010 al 2012, laddove, avendo la lavoratrice riconosciuto in giudizio il pagamento della tredicesima per gli anni sopraindicati, l’importo avrebbe dovuto essere ridotto e riproporzionato al solo anno 2012.
2.3. Con riguardo al T.F.R. rileva che il giudice territoriale avrebbe travisato le deduzioni della (omissis) (omissis) che non avrebbe mai ammesso il diritto della lavoratrice al trattamento di fine rapporto nella misura richiesta, ma solo puntualizzato di aver inviato un prospetto all’I.N.P.S. di liquidazione del T.F.R. e di non essere a conoscenza dell’avvenuta liquidazione o meno da parte del predetto ente.
Si rimarca ancora una volta nel motivo l’incongruità della somma non liquidata con riferimento al rapporto di lavoro in part-time al 50%, ma parametrata, invece, ad un lavoro a tempo pieno.
2.4. Il motivo, inammissibile con riguardo a tutte e tre le sottocensure in cui é articolato, é infondato con riguardo al profilo esaminato al punto 2.4.4., qui precisato altresì in via preliminare che la mancata produzione degli effetti del licenziamento fino alla guarigione comporta che e questa la data rispetto alla quale va effettuato il ricalcolo degli emolumenti dovuti (cfr. innanzi quanto esposto al punto 1.4).
2.4.1. Va, in primo luogo ricordato, in linea generale, che in tema di ricorso per cassazione, può essere dedotta la violazione dell’art. 115 c.p.c. qualora il giudice, in contraddizione con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove inesistenti e quindi, quando la motivazione si basi su mezzi di prova mai acquisiti al giudizio oppure quando da una fonte di prova sia stata tratta un’informazione che é impossibile ricondurre a tale mezzo. Quest’ultima ipotesi é ben diverso dall’errore nella valutazione dei mezzi di prova non censurabile in sede di legittimità – che attiene, invece, alla selezione da parte del giudice di merito di una specifica informazione tra quelle astrattamente ricavabili dal mezzo assunto (cfr. n. 12971/2022, rv. 664816 – 01).
Nel giudizio di cassazione, afferma ancora il giudice di legittimità, la parte non può dolersi del modo in cui il giudice di merito ha compiuto le proprie valutazioni discrezionali, in ordine ai diversi significati in astratto ricavabili dai mezzi di prova acquisiti al giudizio, mentre l’illegittima utilizzazione di prove inesistenti, perché riferite a fonti mai dedotte in giudizio oppure a informazioni probatorie prive di alcuna possibile o immaginabile connessione con le fonti appartenenti al processo, e sindacabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., in quanto integrante violazione dell’art. 115 c.p.c. (in tal senso Cass. n. 13918/2022, rv. 666484-01).
Con riferimento sia all’art. 115 c.p.c. che con riguardo all’art. 116 c.p.c., Cass, n. 6774/2022, rv. 664106-02 precisa inoltre che, in tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione delle sopraindicate norme non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione.
2.4.2. I principi innanzi richiamati consentono di evidenziare i primi due profili di inammissibilità del motivo.
In primo luogo, l’erronea evocazione del canale di accesso con riguardo agli artt. 115 e 116 c.p.c. che non avrebbe dovuto essere il n. 3, ma piuttosto il n. 4 dell’art. 360. Le medesime considerazioni valendo anche con riguardo all’art. 112 c.p.c.
Il secondo e ben più marcato profilo di inammissibilità concerne, come di qui a poco vedremo nel dettaglio, il contenuto delle singole censure che – lungi dal riguardare la violazione del riparto degli oneri probatori, la valutazione di prove giammai acquisite al processo o ancora l’ammissione di prove d’ufficio fuori dai limiti consentiti – ridonda in una complessiva e generalizzata richiesta di rivalutazione del merito.
2.4.3. Nel dettaglio, quanto alla tredicesima e inammissibile il profilo che chiede – nella sostanza – al giudice di legittimità di rivalutare l’idoneità della documentazione in atti (cedolini paga con indicazione dell’Iban) ai fini della prova dell’avvenuto
Inconferente il rilievo che il giudice abbia ritenuto provato il pagamento relativamente ad altre annualità 2010 e 2011, per le quali del pari erano stati versati in atti gli statini paga e ciò in quanto, secondo quanto affermato nello stesso ricorso (cfr. pag. 11 primo capoverso), in relazione a dette annualità vi era stata non contestazione della ricezione degli emolumenti da parte della lavoratrice.
A tanto va solo brevemente aggiunto che la non contestazione della ricezione del cedolino paga da parte del lavoratore, per l’anno 2012, non comporta affatto – a differenza di quanto adombrato in ricorso – la non contestazione circa il pagamento degli importi portati da detto documento.
Una cosa, infatti, e la non contestazione della ricezione degli importi dovuti a titolo di tredicesima per gli anni 2010 e 2011, che rende superflua la necessita di ogni prova, altra cosa e la non contestazione – relativamente all’anno 2012 – della ricezione del solo cedolino, che non costituisce affatto ammissione, come già anticipato, della ricezione degli importi dallo stesso portati.
2.4.4. Quanto al T.F.R., incontestata tra le parti la ricorrenza di un rapporto di lavoro a tempo determinato, non può esserne messa in discussione la debenza. Ne consegue che, essendo l’Inps mero ente erogatore, la mancata prova del pagamento di detto emolumento da parte (omissis) (omissis) già comporta il rigetto del motivo.
2.4.5. Restano da esaminare congiuntamente, infine, le censure svolte con riguardo all’erroneità dei calcoli effettuati quanto alla liquidazione dell’indennità di malattia, della tredicesima e del F.R. non riproporzionate in ragione dello svolgimento del lavoro part-time al 50%.
2.4.6. Il motivo che – pure astrattamente profila una, in linea teorica (fondata) questione di diritto, ovvero la necessità che i suddetti emolumenti siano riproporzionati in relazione alla “quantità” di lavoro prestato e dunque nella specie al part-time al 50% – non supera il vaglio di ammissibilità sotto il profilo dell’autosufficienza.
2.4.7. Ed invero, come ricorda il giudice di legittimità, il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ex 366, comma 1, n. 6), c.p.c., e compatibile con quello di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, qualora, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, dovendosi, di conseguenza, ritenere rispettato ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali si fondi la doglianza, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati (tra le tante, fra le più recenti, si veda Cass. n. 12481/2022, rv. 664738-01).
2.4.8. A tanto non ha ottemperato la parte ricorrente che nel mezzo, invece, si limita, nella sostanza, a contrapporre i propri calcoli ritenuti corretti a quelli del giudice di merito.
Il ricorrente, in tal modo, non ha in questo modo offerto alcuna possibilità a questa Corte di verificare la fondatezza dell’assunto.
Il ricorso non solo non contiene la trascrizione dei documenti datoriali (statini paga, progetto Tfr, etc.), nemmeno ne riporta in modo esaustivo il contenuto, del tutto insufficiente il mero riferimento alla retribuzione annua lorda, vieppiù in considerazione del rilievo che, secondo quanto emerge dalla pronunzia di appello (cfr. pag. 3), le somme sono state calcolate con riferimento agli stessi documenti di provenienza datoriale (es. 13A sulla base del cedolino paga, TFR sulla base del progetto di liquidazione inviato all’INPS).
In sintesi il motivo é anche in parte qua inammissibile.
3. Con il terzo mezzo, infine, si lamenta la violazione, falsa applicazione ed erronea interpretazione dell’art. 10 del d.lgs. n. 66 del 2003, in riferimento al d.lgs. n. 29 del 1993Numeer dell’art. 18 A.C.N. 1994-1997, nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
Si afferma nella censura che la lavoratrice non avesse affatto diritto all’indennità per ferie maturate e non godute e ciò in applicazione dell’art. 18 del c.c.n.l. pubblica amministrazione innanzi richiamato.
Si specifica che la disciplina contrattuale, non incisa dal d.lgs. n. 66 del 2003, ammette la monetizzazione – alla cessazione del rapporto di lavoro – delle sole ferie non godute per rilevanti ed indifferibili esigenze di servizio, inapplicabile la disciplina ad altre ipotesi quale la presente.
3.1. Al riguardo, in primo luogo, va premesso che il dato normativo applicabile ratione temporis e l’art. 5, comma 8, del l. n. 95 del 2012, atteso che il rapporto a tempo determinato e cessato alla data del 14.1.2013.
La norma innanzi ricordata cosi dispone:
“ 8. Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilita, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, e fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile. Il presente comma non si applica al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al termine delle lezioni o delle attività didattiche, limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie spettanti e quelli in cui é consentito al personale in questione di fruire delle ferie.”
3.2. In secondo luogo, e imprescindibile dare atto degli approdi della giurisprudenza costituzionale e della Corte di Giustizia, sul tema in esame, limitatamente a quanto rileva ai fini della presente decisione.
3.2.1. La Corte costituzionale nella sentenza n. 96 del 2016 ha dichiarato:
“Non e fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 8, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, 135), impugnato, in riferimento agli artt. 3, 36, commi primo e terzo, e 117, primo comma, Cost., in quanto vieterebbe, nell’ambito del lavoro pubblico, di corrispondere trattamenti economici sostitutivi delle ferie non godute anche quando la mancata fruizione non sia imputabile alla volontà del lavoratore, come nel caso della malattia“.
Nel percorso motivazionale seguito dalla pronunzia il Giudice delle leggi ha avuto modo di precisare che sia il dato letterale della norma che la ratio della stessa rivelano l’erroneità del presupposto interpretativo del remittente.
Il legislatore, infatti, correla il divieto di monetizzazione a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro e riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilita, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che sempre consentono di pianificare per tempo la fruizione del periodo di riposo e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore e quelle del prestatore. Lo scopo della normativa e, infatti, quello di reprimere il ricorso incontrollato alla “monetizzazione” del periodo di ferie non goduto, contrastandone gli abusi, e di riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle stesse, nell’alveo di una razionale programmazione, con lo scopo di favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto, ma senza arrecare alcun pregiudizio al lavoratore incolpevole.
Del resto, viene osservato, sia la prassi amministrativa che le decisioni della magistratura contabile escludono dall’ambito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non dipendono dalla volontà del lavoratore e tutta la giurisprudenza di legittimità riconosce sempre al lavoratore il diritto ad un’indennità per le ferie non godute, quando il mancato godimento dipende da causa a lui non imputabile, e ciò anche quando difNeumtetroi un’esplicita previsione negoziale in tal senso, ovvero quando la normativa settoriale formuli il divieto di “monetizzazione”.
Ebbene, e di tutta evidenza che, se così interpretata nel solco della pronunzia del giudice costituzionale, la disciplina de qua non pregiudica affatto l’inderogabile diritto alle ferie, garantito da radicati principi espressi dalla Carta fondamentale nonché dalle fonti internazionali ed europee.
Ne la normativa qui in discussione sopprime la tutela risarcitoria civilistica del danno da mancato godimento incolpevole delle ferie.
3.2.2. Quanto alla giurisprudenza della CGUE (in particolare nella causa 619/2016 del 6.11.2018 e nelle altre di seguito citate) emerge che:
– l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, in particolare, riconosce al lavoratore il diritto a un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti e che tale norma deve essere interpretata nel senso che essa osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in grado di fruirle prima della cessazione di tale rapporto di lavoro, in particolare perché era in congedo per malattia per l’intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto (sentenze del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 62; del 12 giugno 2014, C-118/13, punto 17 e giurisprudenza ivi citata; del 20 luglio 2016, C-341/15, punto 31, nonché del 29 novembre 2017, C-214/16, punto 65);
– l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale recante modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali retribuite espressamente accordato da tale direttiva, che comprenda finanche la perdita del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento o di un periodo di riporto, purché, pero, il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare il diritto medesimo (sentenza del 20 gennaio 2009 C-350/06 e C-520/06, punto 43 e giurisprudenza ivi citata).
3.3. Osserva il Collegio che nel caso di specie vi e stata la fruizione da parte della lavoratrice del congedo per malattia fino alla data della cessazione del rapporto di lavoro, ovvero una delle ipotesi che in armonia con la ratio della decisione del giudice costituzionale e secondo la giurisprudenza della CGUE innanzi richiamata ben consente la monetizzazione delle ferie.
L’art. 7, paragrafo 1, della direttiva cit., come innanzi interpretato dalla CGCE, e, infatti, ostativo a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in grado di fruirle.
Ne può porsi in dubbio che il congedo per malattia sia riconducibile a tale alveo, essendo sostanzialmente una ipotesi di impossibilita di fruizione indipendente dalla volontà del prestatore ovvero una delle ipotesi che del pari la Corte costituzionale ha sottolineato essere meritevole di tutela.
3.4. In estrema sintesi, la lavoratrice, essendo in malattia fino alla cessazione del rapporto di lavoro intervenuta all’atto della guarigione, non avrebbe in alcun modo potuto fruire delle ferie nel periodo di congedo.
3.5. Quindi, dell’art. 5, comma 8, l. n. 95 del 2012, conv. con modifiche in l. n. 135 del 2012, va data una interpretazione orientata alla luce dei principi tracciati dalla nostra giurisprudenza costituzionale e dall’art. 7, comma 2, della Direttiva Ce n. 88 del 2003, come interpretato dalla giurisprudenza della CGUE, di tal che va riconosciuto il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie anche nel caso di specie, in cui l’impossibilita di fruizione delle stesse e stata determinata dallo stato di malattia protrattosi fino al giorno di cessazione del rapporto.
4. Conclusivamente il ricorso va rigettato.
5. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
6. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
PQM
rigetta il ricorso;
condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della parte controricorrente, liquidate in € 200,00 esborsi ed € 3000,00 per compensi professionali oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 9.11.2023.
Il PRESIDENTE
(dott.ssa Caterina Marotta)
Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2023.